“Sempre ricorderò, del mio paese, la deserta poesia di quei luoghi fuori mano, presso alle mura castellane, dove, intorno ad ariosi e secolari palazzacci pontifici carichi di stemmi e di sacre chiavi, oggi ridotti a caciare e magazzini, svariano i rondoni e i colombi l’estate…”

 “Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, cogli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane, di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase come seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa. Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli.”

(Vincenzo Cardarelli)

Oggi le parole di Vincenzo Cardarelli, figlio di questa terra così intimamente permeata da un profondo senso della morte, lasciano ancora penetrare nell’anima dei pochi viaggiatori colti o del semplice lettore curioso emozioni intense come quella dolce, languida malinconia che scaturisce dalla memoria delle rovine spirituali e materiali del passato; sentimento ancora più vivo, questo, in quei tempi ormai lontani in cui ci si immergeva nel segreto mondo degli Etruschi di Tarquinia senza schermi razionali di alcun tipo. Allora, penetrando negli antichi ipogei e calandosi nelle loro viscere oscure, cupo averno apparentemente senza speranza, si manifestava all’improvviso, come d’incanto, quel paradosso da sempre aleggiante sulla civiltà etrusca. Lentamente, nel buio rischiarato dal fioco chiarore delle lampade l’occhio iniziava a percepire vivaci colori, macchie di luce viva che spezzavano la cappa oscura in cui il sepolcro era avvolto. Figure di persone danzanti attive e giocose, e tuttavia velate da un’enigmatica tristezza, sembrano quasi muoversi, mentre altrove demoni alati, brandeggianti minacciose mazze, occhieggiano grifagni, fissi per l’eternità nella loro spaventosa posa. Vita e morte, luce e oscurità, colore e buio si univano così in un abbraccio eterno nei sepolcreti tarquiniesi. Destinatario, solo il morto; questo “spreco” di colori ed energie solo per lui, destinato a contemplare in eterno il senso riposto dell’esperienza umana espresso dai dipinti.

E’ in questo modo che quei romantici esploratori dell’Ottocento e del primo Novecento sensibili al richiamo del sacro daimon dell’ispirazione artistica, come George Dennis e D.H. Lawrence, dovevano percepire l’aura suggestiva e carica di sacralità che emanava dai dipinti delle tombe tarquiniesi, scavate nel giallo calcare marino della zona.

Oggi questo romantico incanto, fantastica visione letteraria generatrice di quel mito etrusco che ancora affascina tanto noi postmoderni, si è dissolto. Per sempre. Il turismo di massa, la modernizzazione delle strutture e la gestione commerciale dei siti archeologici, con l’idea di rendere più fruibili  alla gente i luoghi etruschi, hanno quasi del tutto spazzato via l’aura romantica che avvolgeva un tempo la necropoli di Monterozzi, oggi percepibile ormai solo nelle memorie letterarie, o forse in qualche escursione solitaria dove un tempo “rise l’etrusco”. Le famose tombe dipinte, oggi in parte sigillate da algide porte a vetri, sono comunque sempre lì e arricchiscono con la loro squillante policromia la vasta città dei morti, che si estende per chilometri lungo una strada che la fiancheggia, attraversando terre ancora gravide di qualche piccolo segreto .

La città antica, nata anche da complessi calcoli astronomici e suggestioni astrologiche, sorgeva sul colle della Civita, proprio lì di fronte ai “monterozzi”, vivi e morti separati solo da una valle che a primavera inverdendosi rivive, offrendo ristoro a numerose greggi che sembrano da poco uscite da un poema arcadico o da classici idilli pastorali. Coi suoi circa ventimila abitanti l’antica Tarchna, o Tarchuna, nata dal volere e l’intraprendenza del mitico Tarchon, spiccava tra i grandi centri dell’Etruria per ricchezza e importanza. Oggi il Museo Nazionale Tarquiniese, ospitato nella stupenda cornice del quattrocentesco Palazzo Vitelleschi, offre una bella panoramica sull’evoluzione della cultura etrusca, profondamente segnata dall’incontro con i Greci e col mondo del Vicino Oriente.

Ma la storia di Tarquinia non si esaurisce con gli Etruschi e coi Romani, che conquistarono il sito assoggettandolo alla gloria dell’Urbe. Le numerose torri, le rudi mura medioevali e le belle chiese romaniche testimoniano ancora oggi l’antico splendore della città tra l’XI e il XIII secolo, oggi un po’offuscato dall’incuria dell’uomo moderno.

Ma anche questo, forse, fa parte del carattere della città, segnata qua e là da un senso di disfacimento, da un’atmosfera di abbandono e di desolazione che si riverberavano in passato anche sul territorio circostante. Qui i campi, prima bruciati dal sole maremmano e in parte avvelenati dalla malaria, oggi invece resi fertili, si estendono per chilometri lungo la costa del Tirreno. Terra amara e aspra per eccellenza, un tempo, la Maremma, come narra il dolente canto della gente che qui ha lavorato duramente e spesso ha perso la vita a causa delle letali zanzare; o come scrive Dante, secondo il quale terribili fiere popolavano le intricate selve tirreniche "tra Cecina e Corneto [l’antico nome medievale di Tarquinia]".

I testi sono di . Se ne autorizza la pubblicazione citando autore e fonte, grazie.