MUSTANG

In trekking dove Shiva incontra Budda

aprile 2003

 

19-20 Aprile, Kathmandu  

Spotorno, Genova, Milano, Londra: nell’immenso aeroporto di Heathrow il mar Ligure è ormai molto lontano, eppure sono passate solo poche ore, due treni, un pullman ed un aereo. Ma dove vai, c’è la guerra, c’è la Sars, la polmonite atipica, ma il Mustang non è il nome di un cavallo? Ma non ci sei già stato in Nepal?

Non ho detto a nessuno che volavo con la Qatar Airways con scalo a Doha, la città sede del comando americano e della televisione Al Jazira. A Londra incontro Roberta ed Anna, e dopo attenta perquisizione saliamo sul grande e nuovissimo airbus della compagnia araba. Aereo mezzo vuoto, ma chi vuoi che vada a Doha di questi tempi? Meglio, ci si può sdraiare e dormire. Quando mi sveglio stiamo sorvolando il deserto della penisola arabica, sullo schermo compare anche Baghdad. Mi aspettavo tutti sul piede di guerra ed invece nell’aeroporto scintillante e lussuoso di Doha non ci sono né marines né Lilligruber d’assalto, che delusione, il mio primo reportage dal fronte. Si vedono invece arabi tutti vestiti di bianco con in testa il loro copricapo a tovaglia, ci sono donne velate. Dopo un’ora ci imbarchiamo per Kathmandu, insieme a qualche turista e pochi altri. Mi sdraio e dormo. Alle quindici ora locale atterriamo nella capitale nepalese, il ricordo è ancora vivissimo, il mio primo viaggio in Oriente. Bisogna fare il visto e - recuperati i grossi bagagli con zaino, tenda, materassino, sacco a pelo - usciamo. L’aria è luminosa e pulita, facciamo fatica a trovare un taxi ad un prezzo ragionevole, c’è un grosso sciopero in corso in città. A mano a mano che ci dirigiamo verso il centro e la zona turistica di Thamel l’aspetto della città diventa quasi irreale, almeno rispetto i miei ricordi precedenti. Neanche una macchina in circolazione, silenzio, pulizia, sorprendentemente tutti i negozi sono chiusi. Il taxi ha paura di inoltrarsi nelle vie di Thamel, ci parla di uno sciopero degli studenti che a suo dire sarebbe molto violento. La città ha uno strano aspetto, a metà tra quello di una domenica ecologica a piedi e quello precedente una manifestazione di noglobal. Dobbiamo perciò spingerci a piedi con gli zaini in spalla fino all’hotel Marshyangdi dove Roberta è di casa; mi sistemo in una bella camera. La zona di Thamel è quella dove si trovano la maggior parte degli alberghi, ristoranti, negozi di souvenir e locali, e ha un aspetto molto carino, un po’ esotico ed un po’ “fricchettone”. La mancanza di auto e di traffico ne migliora di molto l’aspetto, e quando ci rechiamo in compagnia di Lhakpa presso l’agenzia che ci ha organizzato il trekking, alcuni negozi stanno riaprendo. In agenzia paghiamo il pattuito, lasciamo i passaporti e le foto, e usciti decidiamo di recarci presso lo stupa di Bodnath, luogo buddista tibetano tra i più importanti e belli di Kathmandu. Il lungo tragitto in risciò, mi permette di immergermi nella vita della città all’ora del tramonto, con i bambini che giocano a cricket, gli uomini che parlano, le donne che lavano, i contadini che tornano dai campi. Quello che colpisce dei nepalesi è il loro sorriso, la loro stupenda serenità qualunque cosa stiano facendo; è naturale pensare  alle facce perennemente immusonite ed arrabbiate che si incontrano nelle nostre città, al nostro essere perennemente incattiviti con il prossimo. Sta qui il fascino di questa città, negli squarci di vita che si aprono improvvisamente, come il tempietto nascosto con i suoi riti e i suoi colori accesi, il laghetto con le donne che attingono l’acqua per la casa, le vacche che pascolano accanto al palazzo reale. Quando giungiamo a Bodnath il sole è tramontato, ma posso ancora ammirare lo spettacolo di questa enorme cupola bianca, sormontata da una torre sui quattro lati della quale ci sono i tre occhi del Budda che ti seguono ovunque, tra il tripudio delle bandierine di preghiera che scendono verso terra. Compio il rituale giro in senso orario tra le migliaia di pellegrini che vengono qua al tramonto a pregare. E’ un posto davvero magico, che mi ricorda tanto la Shwedagon Paya a Yangoon in Birmania, il tempio buddista più bello che abbia mai visto. Al ritorno il guidatore del mio risciò fatica un po’ a pedalare e scende più volte a spingere; rientriamo a Thamel mentre la città si sta svuotando e spegnendo. A cena ci sono tre amici italiani di Roberta, e mangiamo molto bene sulla terrazza di un bel ristorante indiano. Mi viene in mente un libro che ho letto di recente di un ragazzo australiano che viaggia da Londra a Sydney; scrive della capitale nepalese che i viaggiatori non vengono a Kathmandu per la spiritualità e nemmeno per le magliette ricamate: vengono qui perché è l’unico posto in un raggio di cinquemila chilometri dove è possibile mangiare decentemente. Dopo cena visitiamo la casa di Siliana, una bolognese che si è fatta monaca buddista, si è trasferita qui e gestisce e dirige una casa di meditazione.

 

 

21 Aprile, Pokhara

Alle otto e trenta siamo già a fare colazione, nel bellissimo giardino dell’hotel. C’è ampia scelta ed opto per una colazione ipercalorica, cercando di accumulare riserve di grasso per l’imminente trekking; c’è un cuoco addetto alle sole uova, mi faccio preparare scrambled eggs che guarnisco con salsiccia e pomodorini cotti. L’ambiente è molto carino, la giornata bella e soleggiata. Purtroppo lo sciopero è finito e per Kathmandu hanno cominciato a circolare nuovamente le macchine, rumorose ed inquinanti come in ogni città del terzo mondo che si rispetti. Sono ricomparsi anche quei simpatici omini che vendono il balsamo tigre, un unguento miracoloso che durante il mio primo viaggio in Nepal cercavano di appiopparmi ovunque. La mattina è dedicata alle ultime compere, a quelle cose che avevo deciso di acquistare qui per risparmiare, dopo aver dilapidato un patrimonio nel bellissimo negozio di articoli tecnici di Finalborgo. Al termine della mattinata, dopo le solite faticose contrattazioni ho acquistato: il bastoncino da trekking supertecnico con la molla dentro, una borraccia svizzera ed un paio di pantaloni. Con Anna riusciamo anche a trovare il tempo di gironzolare un’oretta per Durbar square, la piazza reale con i suoi templi, la casa della Kumari (la dea vivente bambina, che ridiventa umana al sopraggiungere delle mestruazioni), Freak street e la sua umanità di venditori implacabili, suonatori, santoni; ci imbattiamo anche in un matrimonio con tanto di banda al seguito. Alle due siamo di nuovo in albergo, ad aspettare l’incaricato dell’agenzia con i biglietti ed i permessi. Si presenta alle due e tre quarti e dobbiamo ancora recarci stipati in un minuscolo taxi al Ministero del Turismo, dove ritiriamo il famoso trekking permit, valido per dieci giorni nell’area ad accesso limitato del Mustang. Il costo è davvero alto, pari a 700 dollari, chissà se è davvero un posto così magico e fuori del mondo? Arriviamo all’aeroporto, ed il terminal dei voli nazionali non è davvero invitante, sporco e fatiscente, il piazzale di ingresso non è nemmeno asfaltato. Le operazioni di check-in sono momentaneamente sospese a causa della pioggia che sta cadendo. La nostra compagnia aerea si chiama Gurkha Air; avremmo tutti preferito volare con la confinante Buddha Air. Finalmente facciamo il check-in e dopo l’ennesima perquisizione fisica entriamo nella sala d’aspetto. Ha smesso di piovere ed appaiono come per incanto sullo sfondo della pista le cime innevate dell’Himalaya. Conosciamo il nostro ufficiale di collegamento, ossia quella persona del Ministero che deve vigilare affinché vengano rispettate da parte nostra tutte le regole di comportamento previste nelle aree protette. E’ un signore con i baffetti e la faccia simpatica, vestito normalmente e con le scarpe da trekking. Finalmente giunge il nostro aereo, un piccolo Dornier da venti posti, tutti accanto al finestrino, anche se purtroppo il cielo coperto non permette di ammirare il panorama delle montagne innevate. Partiamo alle sedici e tre quarti, la hostess ci porge una caramella e l’ovatta per le orecchie; dopo mezzora di volo tranquillissimo siamo a Pokhara. Ci aspetta Lhakpa ed andiamo a sistemarci in un alberghetto. La città di Pokhara è famosa per essere il punto di partenza dei trekking più famosi, in  particolare di quelli sull’Annapurna, ed è una cittadina adagiata su un bel lago circondato da montagne verdissime. Il paese consiste in una via che costeggia il lago, sulla quale sorgono alberghi, ristoranti ed infiniti negozietti stile Thamel. Gironzoliamo fino alle otto, quando ci rechiamo a cena in uno splendido ristorante situato in un giardino direttamente sul lago; c’è pure uno spettacolo di danze nepalese. Purtroppo fatta l’ordinazione aspettiamo per più di un’ora, è dalla mattina che non mangiamo niente, e questo rovina un po’ la cena  che non è malaccio. Ultimi acquisti al supermercato, acqua, sapone, una tazza azzurra, e poi in hotel. Domani si comincia.

 

 

22 Aprile, Kagbeni

Sveglia alle cinque e trenta – oddio perché sono qua, voglio essere nel letto a casa mia - un black tea di corsa ed alle sei siamo di nuovo in aeroporto. La giornata è splendida e finalmente possiamo ammirare sopra Pokhara l’enorme massiccio dell’Annapurna e la splendida sagoma del Fish Tail, il Machapucchare, un enorme Cervino di oltre settemila, montagna sacra a tal punto di non averne mai permesso la scalata ad alcuna spedizione. Alle sei e quaranta siamo di nuovo a bordo del piccolo Dornier per l’ultimo volo prima del trekking; è il più bel volo della mia vita, sfiorando le montagne più alte del mondo, tutte scintillanti ed innevate che si elevano ben al di sopra della quota di volo, sembra quasi di toccarle, e sono rapito dalla loro immensità e dal loro candore, avrei voglia di urlare per la gioia, di gridare tutta  la mia felicità di fronte ad un tale spettacolo della natura. Quasi mi dispiace atterrare nel piccolo aeroporto di Jomson da dove avrà inizio il trekking. Si tratta comunque di una bellissima pista di atterraggio per la sua posizione naturale, dominata dall’immensa mole della montagna del Nilgiri, il cui enorme biancore si staglia contro un cielo azzurrissimo. Siamo già a duemilasettecento metri di altitudine e ci incamminiamo per l’unica via di Jomson, con case in stile tibetano, e graziose guest house. In un alberghetto, Lhakpa, la nostra guida sta approntando gli ultimi preparativi; facciamo conoscenza con i portatori, partiti quattro giorni fa a piedi da Pokhara, che oltre ai nostri zaini dovranno trasportare tutto l’occorrente da campo, incluse le provviste. Ricapitolando oltre a noi tre, ci sono sei portatori, il cuoco, la guida sherpa e l’ufficiale di collegamento. Siamo dodici in totale. Intorno alle otto e venti siamo in moto, sprizzo gioia da tutti i pori. Il sentiero costeggia la valle del fiume Gandaki, in nepalese Kali Gandaki, in questa stagione il fiume è in secca. La valle è bianca e ghiaiosa e contrasta con le montagne che la circondano; un bellissimo paesaggio ed un sentiero molto facile che si inerpica solamente per raggiungere un lungo ponte sospeso che serve a scavalcare il fiume. Sulla sponda opposta si intravede la valle verdissima dove sorge la città di Kagbeni, nostra meta odierna. Ci fermiamo nel minuscolo paesino di Eklabatti, anch’esso un avamposto turistico con simpatici alberghetti dal nome Hill-ton, Holyday Inn e c’è anche l’immancabile Monar. Ancora un’ora di cammino e poco prima di mezzogiorno siamo a Kagbeni, dove entriamo. Una donna che sta tessendo mi chiede venti rupie per farsi fotografare, non corrompiamoli dice Anna, sono già corrotti dico io, pago e fotografiamo. Arriviamo nel cortile di una casa dove piantiamo le tende, aiutati dallo “staff tecnico”. Ci andiamo un po’ a riposare mentre si sta alzando il famoso vento del Mustang, con la mia tenda aperta che fa effetto vela. Arriva Lhakpa con il pranzo, che consiste in patatine fritte, buone, e pesce in scatola. Usciamo a fare un giro per il paese, e ci dirigiamo verso il gompa rosso che domina la città. Da poco tempo si può anche visitare e saliamo fino alla sala interna, dove il monaco ci mostra libri antichissimi, di oltre settecento anni fa, scritti in sanscrito con caratteri tibetani in oro: sono i 108 volumi del Kanjur, la Bibbia buddista. Il monaco ci dice tra l’altro che il Nepal, il Tibet sono paesi poveri, con gente ricca di cuore, mentre i paesi europei sono ricchi, ma gli abitanti sono poveri di cuore. Saliamo sulla terrazza del tetto, dal quale si gode una meravigliosa vista sulla valle del fiume, sull’altissimo Nilgiri, e sull’antico villaggio costruito in pietra che ricorda molto i nostri paesi medievali dell’Alto Lazio. Ci inoltriamo tra le stradine, tra i muri costruiti con pietre a secco e scene di vita quotidiana con donne che stanno lavando i grossi pentoloni in rame. Ci sono anche bambini che chiedono con insistenza penne e caramelle. C’è un bellissimo muro, con una fila interminabile di ruote della preghiera. Al termine c’è il check point per l’ingresso nel Mustang. Da qui in poi in poi serve il permesso speciale, quello costosissimo da settecento dollari per dieci giorni; facciamo un giro al centro visitatori, dove ci sono foto e spiegazioni sulla cultura e storia del Mustang. Ci sono anche le statistiche dei visitatori che si sono inoltrati nel regno proibito. I numeri ci inorgogliscono, solo 562 visitatori nel 2002, di cui 92 italiani, e 8.328 dall’anno di apertura - il 1992 - fino al 2001, di cui 689 connazionali. Quest’anno dal registro non risulta ancora nessun italiano: evviva, siamo i primi! Alle quattro e mezzo il sole è già dietro le alte montagne e ci rechiamo a prendere il tè in un localino carino dall’insegna German Bakery. E’ quasi buio quando ci rechiamo alle tende; nella casa, il cui cortile-stalla ci ospita, consumiamo la nostra cena. Non è proprio da gourmet: riso in bianco, verdure e pollo lesso, il tutto a lume di candela. In compenso la stellata che ci aspetta ci ripaga di ogni sacrificio; alle nove sono già dentro il sacco a pelo.

 

 

23 Aprile, Samar

La mattina presto fa freddo dentro la tenda, ci avevano preavvisato che le temperature potevano scendere sotto lo zero, domani sera mi metterò anche il pile per dormire. Alle sei mi svegliano con una tazza di tè fumante, tea sir, alle sei e trenta le tende sono smontate e facciamo colazione con un misero ovetto. Dopo un’ora partiamo, ci registriamo con orgoglio al punto di controllo, e finalmente mettiamo piede nel mitico regno del Mustang. Scendiamo nella valle del Kali Gandaki, e ne seguiamo il corso controcorrente. Mi giro e la vista di Kagbeni con il suo monastero rosso e sopra ancora l’enorme mole del Nilgiri è uno spettacolo di quelli che si ricordano per tutta la vita. Il cammino è molto facile tra le pietre del fiume; tra questi si nascondono molti fossili, le nere ammoniti; il nostro ufficiale di collegamento è quello che ne trova di più, lui che dovrebbe controllare il rispetto delle regole; comunque sarà con noi tutta la giornata dimostrandosi affabile, socievole e molto simpatico. Per non dove guadare il fiume come i cavalli, e non togliersi le scarpe ci dobbiamo arrampicare su una parete di roccia, con il rischio di scivolare giù. Poi si comincia la salita sotto un sole implacabile, che ci costringe in maglietta e pantaloni corti, mentre saliamo lungo il versante destro della valle. Arriviamo in vista del paese di Tangwe, situato su uno sperone di roccia e circondato dal verde dei terrazzamenti strappati all’aridità diffusa, tramite canalizzazione di piccoli corsi d’acqua. All’ingresso di Tangwe ci sono tre chorten, dopodiché si entra nel paese molto bello anche se sembra quasi disabitato. Le case sono dipinte con i colori rosso, bianco e nero tipici dell’etnia Gurung che lì vive. E’ straordinario il contrasto dei colori delle case con il verde delle coltivazione di orzo, il grigio del deserto, il bianco dei monti e l’azzurro del cielo. A mezzogiorno arriva puntuale come un treno svizzero il temuto vento del Mustang. Si continua con il saliscendi ed alle dodici e mezzo arriviamo al paese di Chuksang dove ci fermiamo per pranzare in una casa locale e riposarci un po’ dopo la nostra razione di chapati, tonno in scatola e piselli. All’una e venti siamo di nuovo in marcia e ridiscendiamo fino al livello del fiume, dove camminiamo un po’ sulla sabbia; Lhakpa e l’ufficiale continuano a trovare fossili tra i ciottoli del fiume. Siamo a quota tremila e giungiamo alla base di un ponte di recente costruzione che scavalca il fiume. Il paesaggio è cambiato e la valle ha preso le forme di un canyon con ripide pareti rosse; in alto ci sono molte cavità scavate nella rocce, e utilizzate in passato da eremiti. Dopo il ponte comincia la salita verso Chele, molto ripida e faticosa, anche se ampiamente ripagata dalla bellezza del canyon. A Chele ci fermiamo per riposarci ed ammiriamo il bel villaggio tibetano, e gli anziani raccolti nella piazza principale tutti intenti a chiacchierare. Si riprende la salita attraverso un paesaggio arido e spettacolare, costeggiando la parete del canyon che è sempre più imponente e selvaggio. Dall’altra parte del canyon c’è il bianco villaggio di Giekar circondato da terrazzamenti degradanti verdissimi. La salita mi mette a dura prova, si sale sempre e dopo ogni curva si vede sempre una nuova salita ed un nuovo passo da oltrepassare. In tutta la giornata abbiamo incontrato pochissime persone, a piedi e a cavallo, comprese alcune piccole carovane che trasportano merci. Dopo quasi due ore di salita il sentiero sale un po’ meno rapidamente e finalmente raggiungiamo il Dzon La Pass dove c’è il classico cumulo di pietre rituale e propiziatorio. Il panorama delle montagne è diventato ancora più spettacolare, si vede una cresta ininterrotta di montagne tra cui il solito Nilghiri ed altre nitidissime sull’orizzonte. Il sentiero procede in piano e svoltata la curva giungiamo in vista della meta della giornata, il villaggio di Samar a tremilasettecento metri di altezza; è stata una bella sfacchinata. Il sole si è celato dietro l’orizzonte, ma le montagne ancora illuminate e dai colori rosati, sono uno spettacolo stupendo ed una splendida cornice del graziosissimo villaggio. Ci sistemiamo nel cortile-gallinaio di una bella casa, dove i portatori arrivati prima di noi ci stanno montando le tende. Mi sento un po’ schiavista, ma vista la stanchezza sono contento. Mi stendo sul materassino autogonfiabile, riesco ad alzarmi solamente per un’ultima foto allo spettacolo delle montagne. Alle sette c’è la cena e questa sera dopo il brodino ci sono le trofie con il pesto che ho portato da Spotorno. Sapori di casa, finalmente una buona cena, anche il dessert di mele fritte è buono.

 

 

24 Aprile, Chyunka

Durante la notte c’è un cane chiuso nel nostro recinto che abbaia in continuazione. Sveglia alle sei, colazione e partenza alle sette e trenta da Samar. Non riesco a staccare gli occhi dalla catena di monti che incornicia tutto il paesaggio, ancora più bello con la luce mattutina. Oggi a detta di Lhakpa è la giornata più faticosa del trekking e su nostra richiesta (come al solito quando le donne si mettono in testa una cosa è difficile farle cambiare di opinione) abbiamo inserito un fuori programma alle grotte di Ranchung. La giornata sarà un lungo alternarsi di saliscendi molto impegnativi. Una prima lunga discesa e successiva ripidissima salita in paesaggio arido e pietroso. Il sentiero si mantiene per un po’ pianeggiante e poi una seconda tremenda salita che non finisce mai e ci porta fino alla quota di tremilasettecento. Ci troviamo su un altopiano che si affaccia sul canyon ed il sentiero corre a strapiombo sul ciglio per parecchio. E’ impegnativo rimanere con i piedi per terra e non scivolare nel burrone; per esorcizzare la paura cantiamo alcune canzoni di Mina. Dopo esserci cullati nell’idea di poter rimanere in quota ci troviamo di fronte ad una discesa, che in una stazione sciistica sarebbe chiamata pista nera. La scesa è rapidissima e porta fino al sottostante fiumiciattolo, quota tremilatrecento, che forma anch’esso un canyon con rocce spioventi. Arrivati finalmente in fondo, mi bagno i piedi nudi nelle acque gelide del fiume, con grande sollievo! Roberta ne approfitta per fare anche lo shampoo, visto la nostra igiene personale a dir poco inesistente. Di qui un’altra salita ci porta alle grotte del Ranchung Chorten, che significa “non costruito dall’uomo”. E’ tra i posti più sacri dell’intero Mustang, bussiamo e ci viene ad aprire un vecchino. La grotta è molto grande e al centro ha un pilastro naturale. Facciamo un giro rituale in senso orario per osservare da vicino le statue, ammirando le decorazioni e le misteriose statue “non costruite dall’uomo”. Il posto è suggestivo, si mischiano in un insieme armonioso la vista del canyon, le bandiere delle preghiere e le innumerevoli sciarpe bianche che pendono dal soffitto. Ridiscendiamo di nuovo al fiume per cominciare una salita da incubo arrampicandoci lungo la parete del canyon. La salita ci mette un po’ tutti in crisi, compreso Lhakpa e l’ufficiale che è sempre con noi. La salita si fa più dolce, ci fermiamo e poi l’ultima tirata fino alla casa dove ci fermiamo per mangiare. Sono le dodici e quaranta e siamo nel villaggio di Shyammochen, in realtà poco più di due case. Quella che ci ospita è bella all’interno, con un lato occupato dai letti, alla cinese, il focolare al centro e una parete con gli armadi che contengono tutta l’attrezzatura da cucina. Anche la famiglia che ci ospita è molto carina; Lhakpa tira fuori dal suo zaino il solito chapati ed il tonno, e questa volta ci sono anche i fagioli. Per fortuna troviamo anche da bere, la borraccia era già vuota da parecchio. Alle tredici e trenta siamo di nuovo in marcia. Poca salita e siamo al passo di Shyammochen, a tremilaottocento con una bellissima bandiera rituale, e che si affaccia su un paesaggio maestoso ed infinito, che sembra non avere fine; ricorda molto la Monument Valley. Nella vastità si distingue il villaggio di Cheling, con le case bianche ed i templi rossi che dominano il paese. La deviazione sarebbe troppo impegnativa fisicamente, chissà al ritorno. Incontriamo un gruppo di donne in abito tradizionale nero e con la gonna a quadri, con al collo i monili di turchese e corallo fossile. Mi ritorna alla mente il mio mitico viaggio in Tibet di qualche anno fa. Le donne si fermano, ridono, ma non vogliono farsi fotografare. Si continua la strada ormai senza difficoltà, passiamo nel villaggio di Tamagoon, ma Lhakpa e i portatori vogliono andare oltre. Alle tre e mezzo siamo a Chyunka, bel paese dominato da un grandissimo stupa arancione, che spicca tra il verde delle coltivazioni. Piantiamo le tende finalmente su un morbido prato, con vista spettacolare sullo stupa e sulle montagne; dalla parte opposta il solito ed immancabile gallinaio. Alle sei e trenta, infreddoliti dentro la tenda ci chiamano per la cena: zuppa, riso con verdure, e dei buoni panzarotti al formaggio. Mangiamo all’interno della casa che ci ospita, la casa è povera anche se il quadro familiare è molto carino, ci sono anche tutti i bambini del vicinato. Sopra la stufa sono appesi pezzi di carne secca essiccata. Ci guardano con curiosità; la padrona di casa allatta un bambino di sei mesi, il suo secondo dopo una bellissima bambina. L’atmosfera è molto accogliente e tranquilla.

 

 

25 Aprile, Tsarang

Alle sette siamo a fare colazione; la signora è già tutta presa dalle faccende domestiche; in un grosso pentolone sta preparando il dhindo, un specie di polenta a base di farina d’orzo. Ormai siamo in confidenza e scattiamo parecchie foto, specialmente ai bambini. Alle otto ci mettiamo in marcia e dopo non molto ci aspetta il primo passo da valicare; la salita è impegnativa, ma riusciamo ad arrivare in cima tutto di un fiato, senza fermarci mai. Il passo di Nye La è a quattromila metri, e c’è la solita altissima bandiera ed il mucchio rituale di pietre. Riprendiamo il cammino molto agevole fino a giungere in vista della prima meta della giornata, il villaggio di Ghemi a tremilasettecento. Il colpo d’occhio è molto bello, i colori sono quelli tipici, il bianco ed il rosso. Intorno alle dieci e tre quarti siamo al chorten che segna l’ingresso al paese. Il primo impatto è molto bello, sembra di aver fatto un salto indietro nel tempo, le strade non sono asfaltate, le case sono tibetane, a due piani, dalle belle finestre colorate. Ci rechiamo in una bella abitazione per il pranzo; la grande casa appartiene alla sorella del re del Mustang; ha un patio all’interno nel quale si riposano i portatori. Saliamo al piano superiore ed in una stanza arredata alla cinese ci viene servito il pranzo, che in nostro onore consiste in una bella pizza alla nepalese, calda fumante, davvero niente male. Nella stanza spicca il calendario degli eroi comunisti, da Mao a Che Guevara, da Rosa Luxenbourg a Kim Il Sung, ci facciamo delle belle risate. Usciamo a spasso per Ghemi, le persone e i bambini ci guardano incuriositi, alcune donne ci chiedono medicine. Raggiungiamo il gompa più importante, anche se ormai non vi sono più monaci. Si chiama, per la cronaca, almeno così è scritto sul biglietto Geme Shad Drup Darkeling Gompa. Le pareti interne sono interamente affrescate ed ancora in buono stato di conservazione. Ci sono libri di preghiera antichissimi ed un chorten reliquario di un famoso lama. Il villaggio di Ghemi è davvero affascinante nella semplicità dei suoi abitanti e nella totale mancanza di “modernità”. Riprendiamo il cammino e scendiamo fino al fiume Khola che lambisce la città; si attraversa il fiume su un ponte in ferro sospeso e si riprende la….. salita. Dopo poche centinaia di metri si trova un lunghissimo muro Mani, sul quale si trovano migliaia di pietre sulle quali sono scolpite le preghiere. Il muro si allunga in salita per centinaia di metri, completamente ricoperto di mantra e raffigurazioni sacre. La strada continua in salita in un paesaggio desertico sterminato, con formazioni rocciose dalle forme più bizzarre, lo spazio si estende quasi infinito, il silenzio è rotto solamente dal rumore del vento, all’orizzonte non si scorgono né persone né altri esseri animati. Bistari bistari dice Lhakpa, lenti lenti camminiamo verso il secondo passo della giornata che appare in alto irraggiungibile. Incontriamo una carovana di cavalli che trasportano le merci verso sud, alcuni sono bardati, altri senza sella. Poco prima delle tre siamo in cima al passo di Tsarag La, a quota tremilanove, dove lo sguardo spazia sulle due valli infinite. Discendiamo con le gambe che vanno ormai da sole, senza alcun sforzo; che spettacolo viaggiare senza essere sopra un auto o un pulmino scassato, che emozione scoprire il Mustang passo dopo passo: l’apparizione di Tsarang è come un miraggio. Adagiato in una valla immensa, preceduta dal verde dei campi coltivati, le bianche case sparse come chicchi di riso e le due moli del gompa sulla destra e del palazzo reale sulla sinistra. E’ un sogno: attraversiamo il grande chorten arancione, porta di accesso della città che attraversiamo per fermarsi presso una bella casa, sul tetto della quale sono state montate le nostre tende. Davvero “tenda con vista”, i palazzi ed i templi, i chorten sono a pochi metri e fanno capolino tra la legna accumulata  sul tetto, come in ogni casa del Mustang. La legna è un bene preziosissimo in una regione priva di vegetazione, e viene immagazzinata sul tetto per fronte ai durissimi inverni. Usciamo per visitare il grande gompa che domina la città, l’ingresso è preceduto da una lunga scalinata. Qui ci accoglie un monaco che ci accompagna nella visita del Gompa Charay Dorgee Dham. Su una prima metà parete le pitture sono state restaurate ed hanno colori molto vivaci, le rimanenti attendono di essere rimesse a nuovo, anche se sotto la patina del tempo si intravedono pitture di straordinaria fattura. Il monaco orgoglioso ci porge il suo biglietto da visita. Nei cortili ci sono ragazzi che giocano a pallone; andiamo nella parte dove un tempo vivevano le monache, ora in completo abbandono. Il tetto del tempio è crollato e tutti gli affreschi sono esposti alle intemperie ed ormai irrimediabilmente compromessi. Fa freddo, rinunciamo alla visita del palazzo reale, anch’esso in completo abbandono e rientriamo per la cena, a base di noodles e fagiolini.

 

 

26 Aprile, Lo Manthang

Sveglia un po’ più tardi del solito, la tappa di oggi non dovrebbe essere tremenda. Fatta colazione usciamo per un ultimo giro della splendida Tsarang. La giornata è una di quelle che ti riempiono il cuore per quanto è bella, non si potrebbe immaginare una luce del sole più calda ed avvolgente ed un cielo più azzurro. Grazie all’interessamento del nostro buon ufficiale riusciamo a trovare il custode con le chiavi del palazzo reale. E’ in uno stato di abbandono pauroso, per salire da un piano all’altro utilizziamo le scale scolpite in un unico pezzo di legno. Ci accompagnano presso una stanza chiusa a chiave, scampata al disastro generale, deve vediamo degli antichissimi oggetti di culto: un libro delle preghiere molto antico, pesante decine di chili, statue e pitture. Ce lo gustiamo piano piano, ho la sensazione di stare visitando qualcosa di davvero particolare, nascosto in una delle più segrete regioni del mondo, in un palazzo chiuso da tempo immemorabile. Anche nella stanza accanto ci sono reliquie ed oggetti vari, alcuni di uso quotidiano; mi colpisce un gruppo di mani recise, tra cui quelle di un uomo. Saliamo fino al tetto su scale traballanti, per ammirare il panorama di Tsarang e delle montagne. Verso le nove riusciamo finalmente a metterci in marcia, scendendo verso il fiume e risalendo sulla montagna, ma la salita non è impegnativa come nei giorni precedenti. Il cielo è di un azzurro fuori di ogni possibile descrizione, il paesaggio è desertico quasi lunare. Di tanto in tanto nel senso di marcia contrario appaiono carovane che trasportano a dorso di mulo merci cinesi, quali birra e riso, dirette a Jommson, dove ricomincia la civiltà. Lo scambio di saluti è d’obbligo, namaste, tashideleck; giungiamo presso un antico chorten, a quota tremilasettecento, molto grande e ci riposiamo un po’ alla sua ombra. Intorno a mezzogiorno comincia a farsi sentire il vento, oggi più forte del solito. A mano a mano che ci avviciniamo a Lo Manthang, la capitale del Mustang, meta finale del nostro viaggio, la strada diventa sabbiosa ed il vento quasi insopportabile. Il Lo La Pass a quota tremilanovecento, ci accoglie con una tempesta di sabbia; ci arrampichiamo in cima, sotto lo sventolìo delle bandiere delle preghiere, per vedere la valle e la capitale fortificata: è un po’ una delusione almeno se paragonata all’apparizione di Tsarang del giorno precedente. Scendiamo velocemente a valle, attraversiamo il fiume e saliamo verso la città. Costeggiamo i muretti di pietre poste a secco, e giungiamo in prossimità della mura. Le tende sono state piantate nel cortile di una casa brutta e maleodorante; siamo appena passati davanti all’Himalayan Resort, l’unico “albergo” della regione. C’è anche scritto hot showers, considerando che sono quattro giorni che non ci laviamo e dormiamo per terra, senza alcuna indecisione ci sistemiamo in questo piccolo hotel, anche se il prezzo richiesto è decisamente sproporzionato a quanto offerto: dell’acqua calda non se ne vedrà traccia e per la luce ci vengono fornite delle candele. Nel pomeriggio facciamo un primo giro della città, che è molto piccola. Antichissime mura la cingono completamente , c’è una sola porta di accesso, fuori della quale ci sono due enormi ruote della preghiera. Entrando dalla porta in città si fa un salto indietro nel tempo come nel film non ci resta che piangere. Non è facile passare inosservati, un gruppo di vecchietti molto carini ci guarda incuriositi. Le strade sono polverose, con le fognature al centro, per le vie si aggirano animali domestici come in un enorme stalla. Un signore ci propone di andare a casa sua, dove ha un piccolo negozio di oggetti tibetani. Accettiamo volentieri e facciamo qualche piccolo acquisto. Ci facciamo accompagnare presso una scuola buddista, che è stata segnalata ad Anna da un amico. In questa scuola si cerca di tramandare la cultura tibetana, che attualmente in Mustang, sta venendo soppiantata da quella nepalese e da quella cinese. Il lama che cercavamo non c’è, però ci accolgono con molto calore; una parte della scuola è ancora in costruzione, ma vi sono ospitati circa ottantacinque ragazzi che giocano contenti in cortile. Su una parete della scuola colgo questa frase “Great minds discuss idea; average minds discuss events; small minds discuss people”. Ritorniamo verso l’hotel, ci fermano dei monaci che ci rivolgono le solite domande in un inglese improponibile: da quale nazione veniamo, quanto ci fermiamo; ci invitano per la preghiera del giorno dopo alle sei del mattino. Intanto alla porta di accesso del paese c’è lo spettacolo stupendo di tutti i contadini e degli animali che rientrano in città, centinaia di capre, cavalli, vitelli che ritornano alle loro stalle in centro città. Le donne attingono acqua dalla grande fontana e riempiono enormi contenitori. E’ tutto davvero bello, ma quando comincio a scattare foto con la macchina digitale, vengo praticamente assalito da tutti i bambini del paese che vogliono rivedersi ripresi nel piccolo schermo. Scappo in hotel rincorso da una torma di bambini vocianti. Lhakpa viene a prenderci per la cena, a base di “momo” davvero buoni.

 

 

27 Aprile, Lo Manthang

Dopo tante notti in tenda, finalmente in un letto vero, si dorme bene nonostante il rumore dei topolini che corrono nel soffitto. Arriviamo in ritardo per la colazione, dopo la quale partiamo per il giro della “capitale”; la giornata a differenza delle precedenti è un po’ coperta ed il tempo sarà variabile per tutto il giorno. Giriamo, unici turisti, in questa città medievale ed andiamo alle scoperta dei tanti templi e dei monasteri armati di torcia portatile per illuminare le pitture. Visitiamo tutti i monumenti principali, il Thubchen Gompa, nel quale alcuni monaci stanno pregando, gli affreschi sono mozzafiato per i colori e per la perfezione dei dettagli. Per fortuna queste pitture sono in restauro e chiunque incontreremo ci terrà a dire che i restauratori sono due ragazzi italiani, che trascorrono quattro mesi all’anno in Mustang per portare a termine l’opera. Comunque lo stato di conservazione degli altri monumenti è davvero pessimo, nonostante il loro enorme valore storico ed artistico. Visitiamo il più antico Jhompa Gompa, nel quale sono affrescati a coprire le pareti splendidi mandala. Ci accompagnano a visitare la scuola annessa al monastero, anche se oggi è domenica e non ci sono lezioni. Il direttore della scuola ci propone l’adozione a distanza di un piccolo monaco, che ha perso entrambi i genitori. Roberta accetta, colpita dalla bellezza del bambino, davvero commovente nel suo abitino rosso da monaco; lo fotografiamo sul tetto della scuola dal quale si gode la vista su tutta Lo Manthang. Finite le visite andiamo in un negozietto, situato all’interno della bella casa del proprietario, che ci fa la posta alla mattina. Gli oggetti in vendita sono oggetti sacri tibetani, di buona fattura, anche se nessuno può garantire la loro presunta antichità. Nel frattempo il nostro ufficiale di collegamento ci ha procurato per le tre del pomeriggio l’appuntamento per l’udienza con il re. Arriviamo puntualissimi al palazzo reale, compriamo le tre sciarpe bianche da portare in dono secondo il rituale, e accompagnati dall’ufficiale saliamo le buie e polverose scale del palazzo reale, in realtà piuttosto mal ridotto. Veniamo fatti accomodare in una bella stanza, il re siede con le spalle rivolte alla finestra, ed al fianco sinistro ha il segretario traduttore. E’ un vecchino molto elegante e fiero, con in testa un bel berrettino ed in mano un rosario tibetano che farà scorrere nella mano per tutto il tempo. Ci porge delle domande con il tramite del traduttore, che gli spiega dove sia l’Italia, più o meno dove è la Germania. Ci viene offerto un tè aromatizzato davvero buono in belle tazze pulite di stile cinese. Le sue domande e le nostre risposte, le nostre domande e le sue risposte sono molto scontate; l’unica cosa degna di nota è la sua contrarietà alla strada che dovrebbe essere costruita nel Mustang, fino a Jommson, che toglierebbe il Mustang dal suo splendido isolamento ma ne comprometterebbe l’unicità culturale e la sua sostanziale integrità. Cosa sarebbe il Mustang con i camion o i fuoristrada al posto dei muli?  Speriamo che questa follia si riesca evitare pur garantendo dignitose condizioni di vita al popolo di Lo. Chiediamo il permesso di fotografarlo e ci congediamo. Saliamo sul tetto del palazzo reale che si rivela sempre di più una casa uguale alle altre, anche se “la più alta della città”, c’è anche la legna del tetto; il segretario del re ci accompagna e ci parla del Mustang. Finita la visita ce ne torniamo ai nostri giri, anche se in realtà non rimane granché da fare, se non il giro esterno delle mura, in alcuni punti molto belle nel loro colore rosso, in realtà tendente all’arancione. Cena e poi in hotel, dove ci aspetta la dolcissima moglie del padrone con in mano la borsa dell’acqua calda, davvero gradita per le fredda notte.

 

 

28 Aprile, Ghemi

Durante la colazione viene il monaco della scuola del giorno precedente, e ci porta in dono la kata, la sciarpa bianca rituale, è davvero un bel modo di cominciare la giornata. Alle sette e un quarto siamo già in marcia, ci attendono tre lunghi giorni di marcia per compiere il cammino a ritroso fino a Jommson. Durante la notte ha fatto più freddo del solito, e tutte le montagne intorno a Lo Manthang sono ricoperte di neve. Usciamo insieme a tutti gli animali che vengono portati al pascolo, ci sono centinaia di cavalli, capre ed altre bestie. Non ci dirigiamo per la via dell’andata, ma facciamo una specie di anello; comunque la strada neanche a dirlo è subito in salita, e dopo un’ora dalla partenza siamo già al primo passo a tremilanovecento metri, la strada si mantiene sempre alta in quota, sfiorando i quattromila. Il paesaggio è desertico, il sole va e viene. Alle nove e trenta si raggiunge a fatica un secondo passo posto a quota quattromiladuecento, il vento è molto forte. Si continua a camminare ed intorno alle undici avvistiamo il bel complesso monastico di Ghar, preceduto da chorten, e cosa insolita circondato da alti alberi. E’ probabilmente il più antico tempio del Mustang, di poco posteriore a Samye in Tibet. Sostiamo ai piedi del bell’edificio rosso. Non c’è nessuno e quando stiamo per desistere sopraggiunge il monaco con le chiavi. Eccoci nuovamente a visitare un antichissimo tempio affrescato, ricolmo di opere d’arte. Qui colpisce la presenza sulle pareti laterali di centinaia di pietre, tutte dipinte come maioliche con raffigurazioni sacre. Si entra in una seconda stanza, ancora più buia della precedente, con una enorme statua di Guru Rinpoché, uno dei più grandi maestri del buddismo tibetano. Finita la sosta culturale si riparte di nuovo in salita, sfiorando ripetutamente i quattromila. Sto male, l’altitudine comincia a darmi fastidio, ho mal di testa, e poi una salita dopo l’altra, quando sembra di essere arrivati si svolta il passo ed ecco una nuova collinetta da scalare; e poi fa pure freddo. Con fatica alle dodici e tre quarti raggiungiamo l’ultimo passo a quattromilacento, dal quale comincia una discesa che più ripida non si può immaginare, in mezzo ad un paesaggio fatto di creste desertiche, pinnacoli e rocce dalle forme strane. E’ davvero impegnativa come discesa, anche se man mano che scendo comincio a stare meglio. Terminata la discesa all’una e mezzo entriamo nel paesino di Dhakmar, che sembra disabitato. Lhakpa bussa in una casa e dopo molto si affaccia una donna; entriamo per mangiare qualcosa. La casa è bella e nella stanza dove ci sistemiamo c’è tutta una serie delle belle pentole in rame, stile tibetano. Lhakpa ha portato chapati, alici in scatola e ceci. Ci vorrebbe un po’ di riposo ma ci rimettiamo subito in cammino, con il tempo che non promette nulla di buono; passiamo un altro paesino molto grazioso, con gli abitanti molto interessati a noi e le donne che si fermano a ridere e scherzare. Io procedo lungo, non mi fermo nemmeno a fare foto. La strada come al solito sale e scende, e come se non bastasse comincia la pioggia che si unisce all’onnipresente vento. Ci mancava solo questo; quando giungiamo in vista di Ghemi, nostra meta, la pioggia si è tramutata in nevischio, non siamo neanche attrezzati per la bufera. La città sembra vicinissima sul suo sperone di roccia, si potrebbe quasi toccarla, eppure come le volte precedenti bisogna scendere fino al fiume, costeggiarlo fino al ponticello di legno e quindi risalire faticosamente verso la città, il tutto sotto la nevicata. Arriviamo nella grande casa dove abbiamo mangiato all’andata. Chiediamo di poterci fermare a dormire nella stanza dove si mangia, è impensabile pensare di dormire in tenda. Ci viene accordato, la stanza è molto accogliente, mi sdraio e vengo svegliato per la cena. Sta ancora piovendo, ma appena mangiato crollo di nuovo addormentato.

 

 

29 Aprile, Chuksang

Ho dormito bene nella camera da pranzo della bella casa di Ghemi, accanto alla nostra stanza c’è una bella cappella affrescata per le preghiere. Alle sette e un quarto siamo di nuovo in marcia per un’altra dura giornata di trekking: al termine della giornata conterò sulla cartina ben sette passi scavalcati. Il tempo non è bello come all’andata, in compenso la neve è molto più in basso e quasi sembra sfiorarla. Facciamo in senso contrario la stessa strada dell’andata; è tutto un saliscendi, le salite in particolare sono una dopo l’altra, mozzafiato. Passo in rassegna tutto il mio repertorio di parolacce, cazzo cazzo cazzo, non riesco a tenere un passo veloce, ho il fiatone, mi sforzo di guardare per terra per non vedere fino a dove bisogna salire. Alle undici siamo a Syangmochen, dove ci riposiamo un attimo; da qui in poi la strada sarà diversa da quella dell’andata, quando facemmo la deviazione per vedere il Ranchung Chorten. Cambia strada, ma non cambiano le salite, c’è una mostruosa fino a tremilanovecento, il Yendo Pass, che spezza realmente il fiato. Eppure continuiamo ad incontrare persone, uomini, donne e vecchi, che trasportano sulle spalle carichi mostruosi, compresi mobili, grossi legni da costruzione e sacchi di cibo. Ci si scambia un veloce namaste e si continua. Non si incontra nessun centro abitato, solo testimonianze di devozione religiosa, chorten, bandierine, mucchi di pietre; ogni volta che si raggiunge la cima del passo non manco mai di aggiungere una piccola pietra al grande cumulo rituale. All’una siamo a Bhona, ed in una casa consumiamo il solito pasto a base di chapati e tanto per cambiare fagioli. La padrona di casa è molto bella, e ci dice che vorrebbe venire in Italia, in alternativa è disposta a darci il figlioletto che ci gira tra i piedi. Si riparte senza indugiare troppo, in direzione Samar che raggiungiamo alla due e mezzo dopo aver dovuto scavalcare e contemporaneamente maledire due gole con i relativi fiumi: discesa a perdifiato, anche il cento percento di pendenza, fiume, e poi salita, discesa, fiume, salita, l’arrivo a Samar è una liberazione, e con soddisfazione ripasso sotto la porta medievale di ingresso alla città.  Il bel paesino dove avevamo dormito è solo una tappa di attraversamento. Da qui in poi la strada è quella dell’andata e ce la ho ancora bene scolpita intesta. Rimane una lunghissima discesa fino a Chele, ripercorrendo il canyon che tanto mi aveva impressionato all’andata. Passiamo in fretta attraverso il paese, mi sembra che i vecchietti non si siano mai mossi dalla piazza principale. Ormai sono ricomparse le grandi montagne bianche, ed il pomeriggio si è fatto caldo. Scavalchiamo il ponte in ferro e ci troviamo di nuovo nella valle del fiume Gandaki, con i suoi sassi ed i fossili neri. Ci dirigiamo lentamente verso la meta della giornata, Chuksang, passando tra i verdi campi d’orzo con le spighe quasi mature. Le tende sono montate nel cortile sul retro di una grande casa; sono le cinque: nove ore piene di marcia, una bella tirata; mi infilo nella tenda fino all’ora di cena, a base di pasta scotta. Eppure nonostante la faticaccia, il poco cibo e la sporcizia che ho addosso mi sento molto contento.

 

 

30 Aprile, Jomson

E’ l’ultimo giorno di trekking, sulla carta è facile. Perciò ci alziamo con comodo, e fatta colazione chiediamo di visitare il gompa. La signora della casa si procura le chiavi e saliamo un po’ fuori il paese. Il tempio è stranamente scavato nella roccia, nessuna guida ne parla, nemmeno quella ormai già mitica di Lucia Ghilardi. Entriamo dentro la roccia e dobbiamo salire due ripidissime scale scavate nel legno. Il tempio è piccolissimo ma ben conservato. Sensazione a metà fra Indiana Jones e Tucci, scattiamo foto all’interno anche se sarebbe vietato. Alle otto siamo in marcia; il percorso è essenzialmente nel greto del fiume anche se talvolta bisogna arrampicarsi sulle pareti della gola perché il fiume non permette di proseguire. Dopo un po’ mi ritrovo da solo, l’ufficiale davanti e gli altri tre, Lhakpa, Roberta ed Anna, dietro. Cammino sotto il sole nella valle, con la sola compagnia del vento, che è l’unico rumore che mi accompagna; ogni tanto incontro qualche abitante del luogo, a piedi e con al seguito le bestie da soma. Immerso in un  paesaggio ed un silenzio quasi assoluto do sfoggio di quasi tutto il mio repertorio di lirica con preferenza per quello francese, da plaisir d’amour a mon couer s’ouvre a ta voix. Ripercorro a rebours l’itinerario, ripensando a tutte le sensazioni che avevo provato all’andata. Quando riappare la maestosa mole del Nilgiri, ripenso all’emozione dell’andata e quando in lontananza scorgo Kagbeni il viaggio sembra finito, anche se la strada è ancora lunga, c’è da guadare spesso il fiume, e c’è sempre quel difficile passaggio in arrampicata a strapiombo sulle rocce. Alle undici e un quarto comincio la salito fino a Kagbeni, dove trovo seduto in attesa il nostro ufficiale di collegamento. Dopo venti minuti arrivano gli altri, ed espletiamo le formalità al check point; c’è lo stesso simpatico ragazzo dalle sembianze indiane dell’andata; sfogliamo con orgoglio il registro dei visitatori che ci hanno preceduto, siamo davvero soddisfatti per la bella impresa. A Kagbeni riappare per incanto la civiltà ed anche i turisti che non avevamo più visto nel Mustang, ad eccezione di un gruppo di francesi. Ci fermiamo a mangiare in una guest house, uovo sodo e tonno in scatola, all’una siamo in marcia per l’ultimo tratto. Sembrerebbe una formalità ed invece l’addio del Mustang sarà da non dimenticare. Si è alzato un vento così forte da non poter andare avanti; il vento a Capo Vado d’inverno sembra una brezza in confronto. Camminare è una fatica indicibile con il vento che ti soffia contro e che non smette mai di martellarti. Si cammina con una tale fatica lungo quella strada che all’andata era sembrata così idilliaca. Attraversare il ponte sospeso che barcolla paurosamente sotto la spinta del vento, e poi il fiume sempre tra i piedi, .. oddio che vento, ..ma guarda cosa succede proprio alla fine, ..ma forse fino ad adesso aveva solo scherzato, è il vento del Mustang, grandioso, che tira fuori tutte le mie negatività, così come il sole dell’andata mi aveva riempito di energia positiva. Che fatica, cammino a testa bassa, quando le raffiche sono più forti mi fermo e mi giro per fare resistenza. Per un microsecondo il vento di placa per riprendere subito più forte di prima. Quando vedo Jomson tiro un sospiro di sollievo, anche se il vento non smette e non si arriva mai. Alle tre e dieci io ed Anna facciamo l’ingresso in paese, è tutto così diverso dall’andata, le nubi offuscano il Nilgiri  poi c‘è il vento. Arriviamo all’hotel dell’andata sfiniti, chi l’avrebbe mai detto, una globalizzante Coca Cola per riprendersi; non scorderò mai la faccia di Roberta trafelata all’arrivo. Ormai il viaggio è finito, percorriamo più volte su e giù l’unica via di Jomson, con i suoi negozietti, faccio una telefonata a casa, dopo dieci giorni di silenzio. La cena è nepalese, con il dessert finale come previsto in ogni trekking che si rispetti, è il momento della mancia alle guide ed ai portatori che se la sono davvero meritata. Lhakpa ci raggiunge e ci offre una bottiglia di un liquore locale a base di mele. Buono, va giù come l’acqua nonostante il tasso alcolico. Si cazzeggia con Lhakpa e l’ufficiale fino alle nove e mezzo, finalmente abbiamo fatto le ore piccole.

 

 

1 Maggio, Kathmandu

Facciamo colazione in hotel, ed alle sei e trenta siamo in aeroporto accompagnati dal fido Lhakpa. C’è molta animazione, ci sono parecchi locali che si imbarcano con grossi pacchi di verdura. C’è anche un “famoso” attore che si pavoneggia ammirato e se la tira un po’. Alle sette e venti siamo di nuovo a bordo del Dornier della Gurkha Air, seduti a sinistra anche se lo spettacolo delle montagne è meno bello dell’andata. Arriviamo in meno di mezz’ora a Pokhara, all’aeroporto siamo un po’ tristi, siamo rimasti da soli in compagnia di Rajendra, il nostro ufficiale, che si prodiga sempre di più per evitarci ogni minima incombenza. E pensare che in tutte le relazioni lette c’erano lamentele di ogni tipo sugli ufficiali di collegamento, il nostro è stato di una gentilezza stupenda, quando si dice un viaggio fortunato. Un'altra mezz’ora di volo, sullo stesso aereo che nel frattempo ha rifatto la tratta Pokhara-Jomson-Pokhara ed eccoci di nuovo a Kathmandu. Prendiamo il taxi e per la strada lasciamo il nostro ufficiale, con tanto di baciamano finale, e quindi arriviamo al Marshandi; c’è un problema tecnico, manca l’acqua, e ci dirottano al Buddha hotel, che si dimostrerà una buona alternativa, soprattutto per la gentilezza del personale. Finalmente una doccia calda, dopo dieci giorni di salviettine umidificate e disinfettante per le mani, rinominato “spermicida”. Puliti e rifocillati ce ne andiamo a spasso per Thamel, lanciandoci in acquisti, riesco anche a trovare il CD di resam piriri, la canzone nepalese che Lhakpa aveva tentato di insegnarmi per tutto il trekking. Con Anna facciamo una puntatina nella zona dove vendono i sari, da utilizzare come tende per il suo appartamento di Milano. Con il risciò attraversiamo una parte meno turistica della città, ammirando la bellezza degli edifici, delle decorazioni e la straripante umanità. Alle cinque ci facciamo portare a Pashupatinah, il posto più sacro della città, nel quale si effettuano le cremazioni. Il fiume, rispetto alla mia visita precedente, è quasi completamente a secco, ma il posto ha lo stesso un grande fascino; visitiamo i templi di Shiva sovrastanti, con le scimmie che si aggirano tra le statue, i buoi che pascolano tra i lingam; ritorniamo ai ghat ed assistiamo a distanza ravvicinatissima ad una cremazione.  La pira di legno è stata già preparata, il cadavere è stato portato tutto avvolto in una stoffa gialla e ricoperto di fiori. Arrivano i parenti, c’è una donna che piange disperatamente, probabilmente il morto era il marito. Poi arriva un sacerdote, che toglie alcune tele dal cadavere e le getta nel fiume sacro. Per ultimo scopre il viso che si rivela essere quello di una giovane donna. Le vengono messi degli oggetti sulla bocca e tra lo strazio dei presenti, la salma viene deposta sulla pira. Alcuni giovani ragazzi girano meccanicamente intorno al cadavere, dopodiché vengono accesi tre fuochi uno sul viso e due subito sotto il corpo, che viene prontamente ricoperto con fascine infiammabilissime, che dopo pochi secondi ardono verso il cielo. A questo punto ci allontaniamo, mi sembra di rubare qualcosa al dolore ed alla compostezza di quella persone, di violare la loro intimità. La pira continuerà ad ardere lentamente fino a quando non rimarrà che cenere, che verrà tutta quanta gettata nel fiume, avendo cura di lavare completamente il ghat, così che non rimanga più nulla. Giriamo per le belle vie intorno al grande complesso religioso e nella bella atmosfera del tramonto, getto sguardi indiscreti nelle case e nei negozi, mentre gli abitanti si preparano per la cena. Rientrati in città andiamo a prenderci un aperitivo al Full Moon, un bel localino che si potrebbe trovare anche qui in Riviera, e ci lanciamo con i cocktail: Daiquiri e Margarita. Ne usciamo un po’ brilli e ci rechiamo a cena in un ristorante tailandese, uno dei migliori della città. Mangiamo benissimo, anche se la cucina è molto piccante, il conto è meno di quindici euro a testa per una cena di dieci portate. All’uscita siamo ancora più sbronzi, crollo immediatamente sul letto.

 

 

2-3 maggio, in volo

Ultima giornata a Kathmandu: la mattina ci facciamo portare a Patan, una delle tre città reali della valle. La Durbar Squar è stupenda; rispetto alla volta precedente molti edifici sono stati restaurati, però non c’è più il mitico santone vestito di giallo con il tridente di Shiva nella mano ed un cobra nel grembo. Ci perdiamo nei vicoli di Patan, continuamente rapiti dalla bellezza dei posti e dalle situazioni: donne variopinte che lavano i panni, uomini che tagliano la legna, badano ai negozi, vecchini che chiacchierano davanti all’ingresso dei templi. Si potrebbe camminare per ore senza annoiarsi; andiamo a visitare il museo di Patan, aperto recentemente in uno splendido palazzo che da solo vale il prezzo del biglietto. Le collezioni di arte sacra induista e buddista sono meravigliose, ci sono pezzi di valore inestimabile, perfettamente valorizzati dalla perfetta esposizione museale, realizzata da esperti austriaci. Rientriamo a Kathmandu, Anna e Roberta vanno a Bodnath ad incontrare un famoso lama. Io continuo a gironzolare nella parte meno turistica della città, senza meta, lasciandomi trasportare dal ritmo della città. Ritorno in albergo, e nell’ultima ora rimasta riusciamo a spendere tutte le ultime rupie rimaste nei magnetici negozietti di Thamel. Si va in aeroporto ed alle otto e trenta parte puntuale l’aereo per Doha; è strapieno di piccoli nepalesi spaesati, emigranti, povera manodopera per i ricchi paesi arabi. In compenso il volo successivo per Francoforte è praticamente vuoto, ci sono più hostess che passeggeri, tra cui una ridicola madre con figlio, che indossano la mascherina anti-Sars. Mi sdraio su cinque posti e dormo beatamente. La mattina dopo giungiamo a Francoforte; in volo fino a Verona, e da qui in treno a Milano, Savona,  Spotorno dove arrivo intorno alle cinque del pomeriggio. Vado a casa e mi affaccio dal balcone: il mare…… è azzurro come il cielo del Mustang.