ottobre/novembre
2001
Venerdì,
27 Ottobre, Quito
Ci svegliamo alle 4 e mezzo di mattina con moltissimo sonno ed ancora in bocca il sapore dei tagliolini all’astice che abbiamo mangiato la sera prima da Franco. Si parte da Roma alle 7,30 con destinazione Londra; da qui prendiamo quasi al volo l’aereo per Miami, un nuovissimo 757 della British Airways. Il volo è estremamente confortevole ed ogni sedile è dotato di un piccolo schermo televisivo con dodici canali che trasmettono film recenti , documentari e le ultime puntate di Friends. Vedo quasi due volte il Gladiatore che avevo già visto questa estate e mi era molto piaciuto. Accanto a me sono seduti due ragazzi che vanno in Guatemala; uno dei due scopro essere di Fabrica di Roma a conferma che i viterbesi si trovano ovunque nel mondo. Passano velocemente le nove ore e mezzo del volo. A Miami cambiamo aereo e compagnia aerea; non ricordo molto del volo dell’American Airlines, perché crollo subito addormentato. Arriviamo a Quito alle 22,30, ci sono sei ore di fuso orario; purtroppo sul nastro che scarica i bagagli i nostri non ci sono, sono rimasti in qualche aeroporto o peggio ancora sono stati spediti chissà dove. Facciamo la denuncia all’American Airlines e usciamo; dopo un primo momento di panico incontriamo Pierfabio, un italiano che da molti anni vive in Ecuador e che avevo contattato tramite Internet per prenotare la crociera alle Galapagos e la sistemazione a Quito. Con grande sorpresa Pierfabio non ci porta in un anonimo hotel ma nella sua bellissima casa; ci sistemiamo in una stanza fantastica con delle pareti a vetro dalle quali si può ammirare il panorama di tutta la città illuminata. Ci addormentiamo con le tende aperte.
Mi sveglio alle sei, con l’alba che comincia a colorare la città di Quito che finalmente prende forma adagiata in una lunga valle e circondata da grosse montagne, e continuo a guardarla per alcuni minuti comodamente sdraiato nel letto. Sveglio anche Mara ed Elena, per ammirare insieme la splendida vista; ci vestiamo con i vestiti sporchi del giorno precedente e scendiamo per fare colazione, e facciamo razzia dell’ottimo formaggio fresco che ci viene servito. Beviamo un infuso di mate di coca che serve a diminuire gli effetti del soroche (il mal d’altitudine). Rifocillati e di buon umore per l’ottima colazione, chiamiamo un taxi e ci facciamo portare al Panecillo, una piccola montagna nei pressi della città vecchia, sovrastata da una enorme statua della Vergine che domina tutta Quito; il panorama è straordinario, complice la giornata stupenda ed il cielo di un azzurro inaudito. Alcuni studenti ci guardano incuriositi e ci chiedono notizie varie. Questa volta dichiaro di chiamarmi Miguel , avendo la fortuna di avere un nome che si traduce in tutte le lingue. Scatto più foto che posso nel tentativo di fermare con l’obiettivo quel momento magico. Ci rechiamo quindi nella città presso l’agenzia Galasam, dove dobbiamo pagare i biglietti aerei per le Galapagos. Nel frattempo telefoniamo all’American Airlines, che ci fa intravedere la possibilità di riabbracciare i bagagli in serata. Andiamo a prendere un moderno filobus – il trolley bus- che ci conduce nel cuore della città vecchia nei pressi della Plaza Grande. La Quito vecchia ha un aspetto coloniale molto gradevole, ricca di bellissimi edifici antichi, chiese, conventi e cortili. Ci sono anche quei tipici personaggi che ti aspetti in questi posti, in particolare gli indios con i loro vestiti colorati, i caratteristici cappelli e gli immancabili fardelli sulle spalle. Visitiamo la Piazza dell’Indipendenza con la Cattedrale ed il Palazzo del Governo e ci rechiamo verso il Monastero di San Francisco, la chiesa più antica dell’Ecuador. Lungo la strada Elena subisce un tentativo di furto da parte di una donna, ma se ne accorge subito e la donna si allontana.Visitiamo la chiesa, estremamente barocca nelle decorazioni, tuttavia molto intima e raccolta e come in tutte le altre chiese visitate si avverte un forte senso di devozione da parte della popolazione. Ci rechiamo a mangiare in un self-service, mentre fuori fa capolino la prima pioggia, e mangio della cotoletta impanata, mentre Elena assaggia un piatto locale. Il proprietario è gentilissimo con noi turisti, ci racconta della sua attività di ristoratore e di panificatore; ci offre una bevanda calda, la colada morena, che viene fatta in Ecuador in occasione delle festività dei morti. Terminato il pranzo è finita anche la pioggia e riprendiamo a gironzolare per la città vecchia, perdendoci tra i suoi vicoli. Giungiamo nella piazza della chiesa di Santo Domingo, dove si esibiscono alcuni gruppi musicali e vi sono dei venditori di magici elisir per aumentare la virilità maschile. Nelle vicinanze della chiesa trovo una peluqeria, dove entro per tagliarmi i capelli visto che in Italia non avevo fatto in tempo. Il barbiere è un simpatico signore con i baffetti che lavora a lungo per farmi una sfumatura da vero professionista. Mentre si abbatte sulla città un secondo temporale prendiamo di nuovo il trolley-bus per recarci ad un Centro Commerciale. Sul bus salgono dei bambini di strada, che cercano di racimolare qualche soldo cantando delle canzoni, tra l’altro molto intonati. La scena stride un po’ con l’opulenza del Centro Commerciale, dove compriamo qualche ricambio ed i generi di prima necessità, dovrebbe rimborsarci la Compagnia aerea. I negozi sono molto lussuosi e vi si trova di tutto, come in una grosso centro di una città nordamericana; vi sono anche i mariachi ed i pagliacci che intrattengono i bambini. Dopodiché, con il sole già tramontato, ci rechiamo sulla collina sovrastante, che riconosciamo per la presenza della stadio, per recarci nella casa che ci ospita. Trovarla non sarà facile, visto il buio e la novità dei posti, ci passiamo anche davanti senza accorgercene. Ci consoliamo con la cena predisposta da Monica, la moglie di Pierfabio, e da Maria e Blanchita, due giovani indios che lavorano presso di loro. Dopo cena facciamo quattro chiacchiere con due signore milanesi un po’ snob, al termine del loro viaggio in Ecuador. Mi ritiro in camera, dopo la doccia subito a letto, mentre Elena e Mara continuano la conversazione nella stanza delle milanesi.
Come ieri sveglia alle prime luci dell’alba, ma poi rimaniamo a crogiolarsi in camera fino alle otto, quando scendiamo per la solita abbondantissima colazione. Alle nove partiamo in taxi con destinazione aeroporto, alla ricerca delle valige perdute, ma non ancora non ci sono notizie e ci viene detto di ripassare nel pomeriggio. Partiamo quindi in direzione della Mitad del Mundo; la giornata è splendida e anche se il monumento non è granché, una torre sormontata da un mappamondo, la sensazione di camminare sulla linea dell’Equatore è divertente. Fatte le foto di rito, con un piede nell’emisfero australe ed uno in quello boreale, prenotiamo presso una agenzia locale un escursione a Pululahua; alle undici una brava guida di nome Fernando ci accompagna con la macchina, ai bordi di un enorme cratere vulcanico spento il cui interno è abitato e coltivato da tempo immemorabile da popolazioni indigene. La caratteristica del posto è un microclima molto particolare, dovuto all’incontro di una corrente calda proveniente dal Pacifico che attraversa la Cordigliera, con la fredda aria locale dovuta all’altitudine. Lasciata la macchina iniziamo un trekking della durata di circa due ore, tutt’intorno al cratere del vulcano ammirando lo spettacolo dei campi coltivati e della vegetazione che per effetto delle particolari condizioni climatiche varia continuamente, ed in alcuni punti diventa tropicale con bambù, foglie giganti ed orchidee selvatiche. A causa della perdita del bagaglio faccio il mio primo trekking con le Tods, e devo riconoscere che nonostante l’ilarità della guida non me la cavo proprio male e non cado neppure una volta. Terminato il giro attendiamo il sorgere della neblina, che come ogni giorno a mezzogiorno dovrebbe ricoprire tutto il cratere. Ma visto il tempo particolarmente bello la neblina stranamente tarda; pertanto decidiamo di andare a mangiare presso un ristorante vicino, El Crater, costruito da un noto stilista ecuadoriano, che a detta di Pierfabio disegna gli orecchini per Gucci. Ma l’unica cosa che davvero mi colpisce sono le porte dei bagni, quella delle donne contrassegnata da due grossi seni, e quella degli uomini con un simbolo fallico scolpito con il ferro. Mangiamo molto bene, in particolare il lomos al crater, una enorme porzione di carne; il conto è adeguato. Ritorniamo alla Mitad del Mundo, dove essendo domenica sono presenti bande, danzatori e suonatori vari. Visitiamo il Planetario, davvero molto modesto e riprendiamo un taxi in direzione dell’aeroporto; l’ufficio dell’American Airlines è chiuso e ci dicono di ritornare dopo le otto. Ritorniamo al Centro Commerciale del giorno prima, per la seconda parte degli acquisti. Intorno alle sette torniamo a casa a piedi, questa volta senza sbagliare strada. Cena all’italiana con Pierfabio, Monica e due ragazzi di Palermo, al termine della quale torniamo nuovamente all’aeroporto dove finalmente scorgiamo i tanti sospirati bagagli, o maletas, una parola di spagnolo che non scorderò più.
Sveglia alle 5,30 colazione alle 6 e poi partenza verso l’aeroporto. L’aereo della Tame, compagnia di bandiera ecuadoriana, parte puntuale ed all’inizio si riescono ad ammirare i coni innevati di alcuni vulcani; scalo a Guayaquil e poi partenza verso Baltra. L’arrivo alle Galapagos è un po’ deludente, infatti una fitta coltre di nubi impedisce di ammirare le isole dall’alto. Scendiamo dall’aereo, paghiamo i cento dollari per l’ingresso al parco naturale; ad attenderci c’è Peter che sarà la nostra guida naturalistica durante la crociera; c’è qualche problema a causa dell’annullamento da parte di alcune persone, ma finalmente veniamo accompagnati alla barca “El Dorado”, un bello yate da 16 posti, roba da signori. Gli altri partecipanti provengono da diversi paesi, olandesi, americane, inglesi,svizzeri e c'è purtroppo anche un italiano Giuseppe, piuttosto petulante, che ci si appiattola subito. Peter ci convoca per il briefing quotidiano, illustrandoci il programma della giornata, nonché tutte le regole comportamentali del parco delle Galapagos. Intanto la barca si sta dirigendo verso la prima tappa, le isole Plazas. Durante il viaggio di circa un ora, ci fanno compagnia sul ponte superiore , alcune enormi fregate, che seguono la rotta dalla barca. E’ il primo incontro con la fauna delle isole e siamo tutti presi dalla vista di questi grossi uccelli. Giunti a destinazione, si procede con il primo sbarco “asciutto”, senza cioè doversi bagnare i piedi. Ci attende subito la prima colonia di rumorosi leoni marini, i mammiferi più diffusi sulle isole, che in questa stagione sono accompagnati anche dai cuccioli, uno per femmina, che succhiano avidamente il latte e giocano tra di loro. Notiamo subito anche enormi granchi tutti rossi, nonché delle iguane terrestri che stanno un po’ ovunque, tant’è che bisogna guardare dove mettere i piedi. Attraversiamo l’isola e ci rechiamo sull’altro lato, su una scogliera dove nidificano una gran quantità di uccelli marini, tra cui le sule. Ci fermiamo ad osservare la loro pesca e a respirare la brezza marina. Nel frattempo il cielo si sta aprendo ed il paesaggio dell’isola è molto bello, con la vegetazione endemica dell’isole, in particolare i cactus, i cui frutti caduti a terra vengono mangiati dalle iguane. Completiamo a piedi il periplo dell’isola, non uscendo dai sentieri rigidamente delimitati; rientriamo quindi sulla barca per goderci lo spettacolo del tramonto sulle isole Plazas con in sottofondo le grida dei leoni di mare.
Sveglia alle 5 e 30, anche se la barca è partita intorno alle 4 per l’isola di Santa Fé e quindi ero stato svegliato dal rumore dei motori e dal dondolio della barca sulle onde. Dopo la colazione sbarco bagnato sull’isola, in realtà ci si bagna di poco sopra la caviglia, in una bella spiaggia bianca anch’essa popolata da una colonia di leoni di mare. Il cielo è coperto e cade una fastidiosa pioggerellina; il giro dell’isola dura poco più di un’ora e c’è da vedere la vegetazione fatta da cactus e piante spinose. Ci sono numerosissimi uccelli e possiamo ammirare da pochi metri il bellissimo falco delle Galapagos. Si ritorna sulla barca e ci si prepara per lo snorkeling; nonostante la guida dica che l’acqua sia freddissima mi tuffo subito, e non mi sembra molto peggio di quella della Sardegna. L’immersione è davvero bella, tra i pesci multicolori (bellissimi i pesci pappagallo) nuotano anche i leoni di mare che mi passano accanto correndo nell’acqua. Rimango qualche minuto faccia a faccia con un cucciolo che mi fissa curioso. Rientrati a bordo incomincia la navigazione verso l’isola di San Cristobal. Dopo un po’ mi viene il mal di mare e sto veramente male; per fortuna riesco ad addormentarmi su una sdraio del ponte e quando mi sveglio il mal di stomaco è scomparso ed il cielo è finalmente sgombro dalle nuvole. Sull’isola andiamo a visitare il Centro di Interpretazione fatto costruire dal governo spagnolo, dove sono spiegate tutte le particolarità geologiche, botaniche e zoologiche delle isole, nonché una dettagliata storia della loro scoperta. Terminata la visita andiamo a sdraiarsi su una bella spiaggia bianca piena di conchiglie, e poi facciamo qualche passo nel paesino dove siamo sbarcati. C’è una bella luce pre-tramonto e l’atmosfera è molto rilassata. Prendiamo una birra in un grazioso bar, con un biliardino molto particolare; il proprietario Fernando è molto contento di averci lì. Al tramonto ci rechiamo sul molo dove arriva una barca carica di pesce; dopo poco li ha venduti tutti, al prezzo di un dollaro per tre pesci enormi. Rientriamo in barca per la cena. Facciamo quattro chiacchiere con tre ragazzi svizzeri da sei mesi in giro per il mondo e poi si va a nanna.
Mercoledì, 1 Novembre, in barca
La barca si mette in moto alle due di notte, con destinazione Isla Española; alle sei la colazione e quindi sbarco asciutto. Facciamo un giro a piedi di due ore, veramente bello. All’inizio osserviamo una colonia di iguane marine, specie endemica dell’isola, ed unico rettile in grado di rimanere sott’acqua fino ad un’ora. Poi ci spostiamo sull’altro lato dell’isola, dove in prossimità di una scogliera vivono le più svariate specie di uccelli. Sembra di essere nel mondo di quark: sule dai piedi azzurri che accudiscono i neonati, albatri che si esibiscono in una danza di corteggiamento, gabbiani, fringuelli e mille altre specie. Rientriamo sulla barca per una breve navigazione che costeggia l’isola fino alla spiaggia di Gardner Bay. E’ una lunghissima spiaggia di sabbia bianca ed il mare ha mille colori diversi, sembra di essere su una spiaggia caraibica. Scendiamo con una sbarco bagnato e sulla spiaggia ci sono ad attenderci un folto numero di leoni di mare. E’ veramente bello, facciamo dello snorkeling, senza però riuscire ad avvistare i famosi squali e poi una lunga camminata sulla spiaggia cercando di farci le foto insieme ai leoni di mare, che non sempre gradiscono. Piccoli uccelli, i cucube, ci vengono sempre intorno e vanno anche a curiosare dentro il mio zaino. Rientriamo in barca per il pranzo, e poi si parte con una lunga navigazione di più di sei ore per l’isola di Santa Cruz; il tempo è bello e mi addormento sul ponte della nave; tra un sonno e l’altro riesco ad avvistare alcuni delfini che seguono la barca. Poco prima di cena un passeggero scopre di essere stato derubato di tutti i suoi dollari; ci affrettiamo a controllare i nostri soldi ed altri due scoprono di essere stati ripuliti a loro volta. Sconcerto generale; nel frattempo siamo approdati a Puerto Ayora dove viene interessata la polizia navale. Un commissario viene a bordo e dopo qualche domanda in giro decide di portare al Commissariato tutto l’equipaggio e i tre passeggeri che durante lo snorkeling erano rimasti a bordo. Rimaniamo da soli sulla barca con grande gioia di Steve che esclama “the bar is open”. I nostri compagni rientrano dopo poco e ci dicono che l’equipaggio è trattenuto in prigione per tutta la notte. Rimane a bordo solo Saul, il meccanico, a presidiare la nave. La serata finisce tra giochi di carte, l’americano UNO, ed enormi bevute di gin.
Al mattino ci svegliamo con il dubbio se qualcuno preparerà la colazione. Anche se in ritardo la colazione viene servita e dopo poco arriva anche Peter. Verso le 8 e 30 sbarchiamo a terra e ci rechiamo tutti al Comando Navale, dove i derubati sporgono denuncia per iscritto. Si parte finalmente in ritardo con un pulmino verso il centro dell’isola. Saliamo fino a 800 metri, e cominciamo un breve trekking a piedi. L’isola al contrario delle altre visitate fino ad ora è verdissima ed ha una vegetazione lussureggiante e tropicale. La giornata è stupenda e visitiamo i coni dei vulcani dai quali si è originata l’isola. La vegetazione è molto particolare e molte specie sono endemiche dell’isola. Subito dopo ridiscendiamo per andare a visitare delle grotte scavate dalla lava durante il processo di solidificazione, niente di particolare. Ritorniamo a bordo per il pranzo, e poi con il dinghy approdiamo direttamente al Darwin Center in mezzo alle mangrovie. Il Centro opera per la conservazione delle specie presenti sulle isole, ed in particolare delle tartarughe giganti, le Galapagos, minacciate da estinzione dopo le stragi del secolo scorso. Osserviamo dapprima il luogo ove vengono cresciute le tartarughe fino a due anni, età alla quale vengono riportate ai rispettivi luoghi di origine. Questo per sottrarre le piccole tartarughe ai predatori introdotti dall’uomo; ciò ha permesso di riportare a livelli accettabili la popolazione in via di estinzione su alcune isole. L’ultimo della sua specie rimane invece l’ospite più famoso del Centro, Lonely Jorge, il solitario da più di ottanta anni che osserviamo dall’alto. Tutti i tentativi finora fatti di farlo accoppiare, con femmine di specie affini alla sua, sono falliti miseramente e Jorge rimane l’unico esemplare di una delle dodici specie di tartarughe un tempo presenti. Successivamente veniamo portati da tre testuggini giganti del Centro, che possiamo osservare davvero da vicino. Peter ci dice che assomigliano in viso ad E.T. e sono veramente grandi e dall’aspetto primitivo. Dopo una sosta ritorniamo verso Puerto Ayora, e ci fermiamo ad osservare un coloratissimo cimitero (oggi è il giorno dei morti). Mi fermo in un Internet Point per leggere la mia posta elettronica e sapere le ultime notizie dagli amici e dai familiari. Ci fermiamo a bere una birra in compagnia dei ragazzi svizzeri e poi rientriamo a bordo. La sera cena a base di lasagne, anche se Mara da brava emiliana storce la bocca. Poi si ritorna tutti a terra per una piacevole serata al Lemon Café tra sfide italo- svizzere a biliardino e a freccette.
Anche questa notte si naviga ( e non con Internet), e la mattina alle sei siamo di fronte all’Isla Seymour, dove sbarchiamo , sbarco asciutto, prima della colazione. L’isola è di aspetto prevalentemente desertico, ed è stupefacente per gli uccelli marini che la popolano. In questo periodo dell’anno le sule dai piedi azzurri accudiscono i piccoli di pochi mesi, ancora tutti coperti di piume bianche destinate in breve a cadere. Poco dopo ci imbattiamo in una folta colonia di fregate, i maschi delle quali esibiscono una enorme tasca golare di colore rosso molto intenso. Nel corso del corteggiamento gonfiano questa tasca che aumenta di volume in modo enorme. La colonia di fregate su quest’isola è la più importante di quelle presenti alle Galapagos. Continuiamo il giro nella parte dell’isola battuta dalle onde e rientriamo a bordo per colazione. Una breve navigazione fino a Baltra dove ci lasciano i tre ragazzi svizzeri che se ne vanno a finire l’anno in Costarica.Si riparte con la barca in direzione nord; la navigazione è bellissima per la presenza di isole e isolotti, i più di natura vulcanica, che costellano il mare. La meta da raggiungere è un isolotto chiamato Sombrero Chino, cappello cinese a causa della sua forma. Ci divertiamo a cercare di riconoscerlo tra le miriadi di isolotti cercando di individuarne la forma. A mezzogiorno giungiamo in una baia tra due isolotti con il mare dalle tonalità di azzurro e verde più varie. L’isolotto a destra si chiama Santiago ed è di roccia nera lavica, come se il vulcano avesse eruttato da poche giorni; quello a sinistra è proprio il Sombrero Chino, ma non mi ricorda granché la forma del copricapo cinese. La barca si àncora nella baia e pranziamo; dopo un’oretta andiamo con il dinghy nei pressi dell’isola di Santiago per fare snorkeling. Mi imbatto subito in una bellissima tartaruga marina che seguo per parecchi metri fino al centro della baia, senza che sia turbata minimamente dalla mia presenza. Il resto dello snorkeling non è particolarmente interessante. Ci rechiamo quindi sull’isolotto di Sombrero Chino per una camminata di un’ora (sbarco bagnato). Anche qui una folta colonia di leoni di mare sulle due spiagge bianche, e poi ammiriamo un bellissimo paesaggio, essendo anche questa isola di origine vulcanica con colate di lava molto evidenti. Rientrati alla barca andiamo in un punto della costa, abituale ritrovo dei pinguini, ma di questi nemmeno l’ombra. Speriamo bene per i prossimi giorni: non si può ripartire senza aver visto i famosi pinguini. All’appello mancano solo loro e i flamingo. Buona cena con il pesce pescato dal cuoco durante la navigazione della mattina.
Siamo ormeggiati fin dalla sera precedente davanti all’Isla Rapida. Facciamo colazione alle 7 e poi scendiamo a terra con il dinghy (sbarco bagnato). La spiaggia sulla quale sbarchiamo è caratterizzata dalla sabbia rossa e dai soliti leoni di mare. Facciamo quattro passi sulla spiaggia, e subito dietro c’è una laguna che molto spesso ospita i fenicotteri. In questa stagione sono però andati via, essendo la stagione secca. Ci arrampichiamo sopra un sentiero che ci porta in breve tempo in un punto panoramico dove possiamo ammirare la spiaggia rossa, la laguna e i cactus; l’isola in questa stagione è brulla, diventerà verde a partire da dicembre. Poi passiamo ad ammirare l’altra costa con dei faraglioni. Dopo poco ridiscendiamo e prendiamo l’attrezzatura per lo snorkeling; all’inizio è molto bello per la gran quantità di pesci che si possono ammirare, molti dei quali si muovono in branco. Stiamo per tornare a riva, quando viene avvistato uno squalo che mi vedo passare a pochi metri sotto la pancia. Faccio in tempo a scattare l’ultima foto della macchina subacquea e poi via a riva. Si riparte con la navigazione, pranzo e verso l’una arriviamo all’isola di Santiago (o Sal Salvador). Scendiamo questa volta su una spiaggia tutta nera in prossimità di una vecchia fabbrica di sale. Prendiamo un po’ di sole e poi ci incamminiamo per una passeggiata sull’isola, anch’essa caratterizzata da recenti formazioni laviche. Costeggiamo l’isola e vediamo il relitto di una nave della Seconda Guerra Mondiale ; continuiamo e tra il mare che si insinua nei canali formati dai gas disciolti dalla lava scorgiamo dei numerosi gruppi di iguane marine, che risputano i residui salini inghiottiti con le alghe, il loro cibo. Quindi continuiamo il giro e vediamo nascoste tra le rocce laviche le prime foche, che differiscono dai leoni marini per una differente configurazione del viso. Inoltre al contrario dei leoni marini, le foche stanno all’ombre tra le rocce e non sembrano gradire molto la nostra presenza, tant’è che dopo poco si tuffano in acqua. Rientriamo in barca e ripartiamo costeggiando l’isola molto bella, mentre il sole tramonta dietro l’isola di Isabella. Cena a base di spaghetti al tonno (lo spaghetto del fuorisede) con barca in navigazione verso l’isola di San Bartolomé.
Domenica,
5 Novembre, in barca
Il viaggio alle Galapagos ormai volge alla fine, oggi è domenica e domani si riprende l’aereo per il continente. Anche oggi giornata intensa e memorabile. Colazione alle sei e poi sbarco asciutto sull’isola di Bartolomé. L’isola è di recente formazione, di natura lavica e coperta da pochissima vegetazione. Saliamo lungo un sentiero fino in cima all’isola, sul punto più alto, in mezzo ad uno spettacolare paesaggio vulcanico. Arrivati alle fine del sentiero si può ammirare il paesaggio forse più famoso delle Galapagos, con le due spiagge a mezzaluna affiancate, ed una curiosa formazione rocciosa il Pinnacolo. E’ davvero un panorama mozzafiato. Ridiscendiamo il sentiero mentre cominciano ad arrivare i primi turisti dalle altre navi arrivate e prendiamo il dinghy alla ricerca dei pinguini che abitano sull’isola. Dopo poco ne troviamo tre che nuotano e dopo poco vanno a mettersi su una roccia, quasi in posa per i nostri obiettivi. Oltre ad essere la specie di pinguini presente più a nord, quelli delle Galapagos sono tra i più piccoli, e sono davvero belli e simpatici nella loro divisa bianca e nera. Siamo davvero eccitati per questo incontro e ritorniamo sulla barca. Prendiamo l’attrezzatura per lo snorkeling e discendiamo su una bella spiaggia sabbiosa ai piedi del Pinnacolo. L’immersione è davvero eccitante, ci sono bellissime rocce colorate, coralli, stelle marine e numerosi pesci. In particolare riusciamo ad avvistare due leoni marini che nuotano, uno squalo e un pinguino che passa nuotando a grande velocità leggiadro per quanto era goffo fuori dell’acqua. Risaliamo in barca, riprendiamo la navigazione e Fausto il cuoco, nel giro di pochi minuti pesca due bellissimi tonni. Dopo pranzo raggiungiamo l’isola di Santa Cruz e sbarchiamo (sbarco bagnato) sulla spiaggia di Las Bachas. Qui ci sono due lagune interne dove possiamo ammirare alcuni bellissimi fenicotteri rosa, alcuni che riposano su una gamba, altri alla ricerca del cibo nello stagno, quei gamberetti responsabili della loro colorazione rosa. Rimango in contemplazione di due fenicotteri e neanche mi accorgo che mi stanno chiamando per ritornare a bordo. La barca riparte per fare rifornimento di acqua, mentre il tramonto avvolge di luce rosata tutto il paesaggio (e ai marinai intenerisce il core….. questa non è mia).
Anche per l’ultimo giorno a bordo si parte alle sei per una escursione con il dinghy alla laguna di Turtle Bay sull’isola di Santa Cruz. La luce mattutina è bellissima e circonda di un alone magico le isole di Daphne mayor e minor. Giungiamo nei pressi della baia tutta circondata da foreste di mangrovie. Dapprima avvistiamo dei gruppi di mante che volteggiano a fior d’acqua sollevando fuori le estremità. Continuiamo ad addentrarci con il dinghy nella foresta di mangrovie e avvistiamo numerosi squali. Dopo poco Peter ci mostra due tartarughe marine nell’atto di accoppiarsi in acqua; sono disturbate dalla nostra presenza ma riusciamo lo stesso a fare qualche foto. Rientriamo in barca, facciamo colazione e poi finiamo di chiudere le valigie. Pochi minuti e siamo all’isola di Baltra. Dopo aver lasciato la mancia a Peter e all’equipaggio sbarchiamo e veniamo portati all’aeroporto; mi dispiace lasciare le Galapagos, sarei rimasto ancora qualche giorno, ma sono convinto che vi ritornerò. Prendiamo il secondo aereo in quanto sul primo non c’era più posto e partiamo verso Guayaquil. Sull’aereo saluto i compagni di crociera in particolare gli olandesi Harold e Myriam, in partenza per il Brasile, gli inglesi Steve e Connie, con destinazione Aruba, la scozzese Claire e l’americana Leigh che invece tornano a casa. A Guayaquil salutiamo anche Giuseppe, che sale subito a bordo di un taxi. Facciamo una breve sosta all’aeroporto, ed alle 5 e 10 siamo di nuovo in partenza per Cuenca. Il volo è brevissimo, dura solo trenta minuti e sfiora montagne, lagune e vulcani sfumacchianti. Con un taxi raggiungiamo l’Hotel Cuenca, prenotato da Pierfabio, molto carino. Usciamo subito a fare un giro, vediamo la piazza dove si affacciano le due cattedrali, molto suggestive illuminate dalle luci artificiali. Camminiamo per la città, che ha una atmosfera molto gradevole e rilassata, con strade pulite, begli edifici coloniali e negozi di tutti i generi. Stanchi di girovagare, dopo aver letto nuovamente la posta elettronica, ci rechiamo a cena in un delizioso caffè, la Barraca, dove mangiamo molto bene e beviamo parecchia cerveza.
La mattina ci svegliamo presto, ma purtroppo non siamo più in barca; il ricordo e la nostalgia per le Galapagos ci accompagnerà per tutta la giornata. Fatta un’ottima colazione all’Hotel Cuenca (queso fresco molto buono) ci rechiamo nella piazza principale, quella delle due cattedrali, e prendiamo un taxi, con il quale contrattiamo l’escursione andata e ritorno a Ingapirca; prima però passiamo al terminal dei bus per comprare i biglietti per Riobamba per il giorno successivo. L’autista è molto simpatico e prendiamo la Panamericana, il paesaggio si fa sempre più bello ed inoltre si infoltisce la presenza di indios intenti nelle loro attività. Quando prendiamo il bivio per Ingapirca il paesaggio si fa spettacolare, tipico della sierra andina. Ci fermiamo per fare delle foto e conosciamo una simpatica signora indigena, Maria Rosa, che disquisisce con noi sugli effetti nefasti della dollarizzazione dell’economia. La salutiamo e raggiungiamo il sito archeologico. Ingapirca è il sito più famoso dell’Ecuador, anche se non è molto imponente. E’ ben tenuto e siamo gli unici turisti presenti; accompagnati dalla guida visitiamo i resti dell’insediamento pre-incaico, e quelli meglio conservati ossia El Castillo costituito dagli Incas. Esso presenta tutte le caratteristiche tipiche delle costruzioni incaiche (mattoni a secco, finestre trapezoidali) ma in più ha una bizzarra pianta ovale che non si riscontra altrove in Sudamerica. Vediamo il museo annesso alle rovine, e dopo una breve visita al paese rientriamo a Cuenca. Ci facciamo lasciare sul Rio Tomebamba, con le belle case coloniali, però il posto è abbastanza sporco e non mi piace. Cerchiamo disperatamente un ristorante dove mangiare, ed alla fine entriamo in una bettola dove ci servono degli enormi piatti pollo con il riso. Conto irrisorio. Inoltre impariamo che “almuerzo” vuol dire piatto del giorno. Rientriamo in hotel per riposare, l’altitudine fa sentire i suoi effetti. Quando usciamo è comparso nuovamente il sole, la città si è di nuovo animata e mi pare molto più gradevole; ci rechiamo nuovamente al fiume, in cerca dei famosi panni stesi al sole, e gironzoliamo per Cuenca. La sera ci rechiamo in un bel caffè ristorante, sulla piazza principale, dove per la prima volta assaggio il ceviche di pesci e gamberi, piatto tipico ecuadoriano con pesce crudo, ma non mi entusiasma più di tanto, anzi ne lascio la metà nel piatto. Di corsa a letto perché il sonno è tanto.
Mercoledì,
8 Novembre, Riobamba
Ci alziamo con molto comodo e rimaniamo un po’ a letto, poi verso le otto scendiamo a fare colazione. Il cameriere è molto socievole, e prima ci chieda la traduzione in italiano dei termini inerenti “el desayuno”, poi si lascia andare a disquisizioni sulla fratellanza universale e sul concetto di “prossimo” per i salesiani dove lui ha studiato. Usciamo per un ultimo giro a Cuenca, vediamo l’interno della Cattedrale e gironzoliamo ammirando le belle case coloniali. Alle 10 e 45 rientriamo in hotel, facciamo una Polaroid di ricordo con il personale dell’albergo, e prendiamo un taxi per il terminal terrestre degli autobus. Il bus è già al capolinea ed i passeggeri stanno caricando sul tetto della vettura ogni genere di mercanzie, dai materassi alle televisioni. Prendiamo posto, e dopo poco arriva la mia vicina di sedile, un’enorme signora dalla stazza mastodontica. Il pullman parte in orario alle 11 e 20 , ma come cerco di schiacciarmi verso il finestrino la signora si allarga sempre di più, inoltre ha un pesante scialle di lana che mi trasmette calore. Dopo un’ora di questa tortura mi sfilo e vado a sedermi nel posto di dietro che era rimasto vuoto, finalmente respiro. Riesco anche ad ammirare il paesaggio esterno, ma è quello che succede all’interno dell’autobus il vero spettacolo. La radio spara a volume altissimo melodie del tipo “ahi ahi ahi me duele el corazon”, e dall’autobus salgono e scendono in continuazione signori e signore indios con i loro vestiti colorati, le trecce, i fardelli, e…le calze a rete. Faccio conoscenza con le mie nuove vicine, due peruviane madre e figlia, che stanno andando a Riobamba per cucinare ad una fiera. La figlia Emma tiene tra le braccia un bellissimo bambino di appena quattro mesi, che dorme beato tra una poppata e l’altra. Durante le fermate salgono sull’autobus venditori di cibarie e questuanti (un po’ meno che sulla metro di Roma). Scambio con le mie vicine pannocchie abbrustolite con parmigiano reggiano portato da Elena. Il viaggio è molto lungo e sfioriamo più volte i 3500 metri, secondo l’altimetro che mi hanno regalato per il mio compleanno. Ad Alausì facciamo una breve sosta di dieci minuti, e le mie vicine scendono e mi affidano in custodia il bambino. Lo tengo in braccio fino al loro ritorno, mi guarda divertito e non piange. Si riparte con nuovi passeggeri; il paesaggio è diventato molto più verde ed è l’ora che i contadini rientrano dai campi. Finalmente alle sei meno venti giungiamo a Riobamba, e prendiamo un taxi per farci portare al Riobamba Inn, un albergo segnalato in una relazione di viaggio che avevo. C’è posto, e concordiamo anche l’escursione per il giorno dopo. Usciamo per fare quattro passi per la città che appare poco interessante; giungiamo fino alla Cattedrale, la cui facciata è in restauro sponsorizzato dalla Coca Cola. Sosta in un internet Caffè e poi andiamo a cena al Delirio, un bellissimo ristorante ricavato in un edificio storico, in cui aveva soggiornato anche Simon Bolivar. Ordiniamo la parrillada, ossia un arrosto misto, ci portano la griglia calda con la brace sul tavolo e sopra c’è una montagna di carne diversa. Mangiamo benissimo allietati dalla musica di un gruppo che suona la musica andina con tutti gli strumenti tipici. Chiudiamo la serata con del rum; davvero una bella serata. Alle dieci siamo a letto.
Oggi è stata una bellissima giornata. Sveglia alle 6 e 40, colazione e poi conosciamo l’autista della macchina che abbiamo prenotato la sera prima dall’albergo. Si chiama Angel. Partiamo verso le 7 e 20, è una bellissima giornata e già da Riobamba si vede la vetta del Chimborazo. Questo è un vulcano spento che è la vetta più alta dell’Ecuador con i suoi 6300 metri. La neve presente in sommità è di colore nerastro e questo è dovuto alle ceneri emesse dal vicino vulcano del Tungurahua, che l’anno scorso ha sommerso numerosi paesi tra cui Baños. Dopo meno di un’ora di macchina raggiungiamo Guamote, che è sede il giovedì di uno dei più bei mercati dell’Ecuador. Il mercato non è molto famoso, ed è appena citato dalle guide, ma proprio per questo ha mantenuto un aspetto prettamente locale, privo di qualsiasi contaminazione turistica. Fin prima di arrivare in città si osserva una processione di indios che portano animali e merci varie verso il mercato. Il colpo d’occhio è stupendo proprio per i colori delle vesti dei locali e per la sua genuinità. Il mercato è ben diviso in settori: visitiamo dapprima la parte dedicata alle stoffe ed ai tipici cappelli a borsalino degli indios (i cappelli vengono dall’Italia). Poi andiamo al mercato del grano, animatissimo e successivamente nella parte dedicata alle mucche. Queste vengono visionate dai vari compratori, viene aperta la bocca per vedere l’età degli animali. Ci spostiamo per vedere il mercato delle pecore e quello molto carino dei maiali, scrofe con i loro maialini, che non ne vogliono sapere di essere trascinati qua e là dai loro proprietari. Il mercato è animatissimo e scatto più di un rullino di foto. Verso le 9 e 30 risaliamo in macchina e ripartiamo in direzione Chimborazo. Ci fermiamo prima presso la laguna di Colta, dove due indios stanno tagliando le canne di palude che utilizzano come materiale da costruzione. Poi si comincia la salita verso il vulcano che appare in tutta la sua maestosità; lungo la strada ci fermiamo a vedere lama e alpaca, e finalmente giungiamo al primo rifugio a quota 4700 metri. Qui scendiamo dalla macchina, prendiamo un tè e mangiamo della cioccolata; l’aria è molto rarefatta e si respira con una certa difficoltà. Ci facciamo coraggio e ci incamminiamo a piedi verso il secondo rifugio, il Whymper, a quota 5000. La salita è faticosa anche se il paesaggio è sublime, in alto le nevi perenni del Chimborazo e a destra la cordigliera delle Ande. Ogni pochi metri ci fermiamo a prendere fiato e ci sediamo, controlliamo l’altimetro per sapere quanto manca. Finalmente con grande soddisfazione raggiungiamo quota 5000 ed il rifugio; Angel ci propone di continuare ancora a salire per andare a vedere una laguna. Siamo dubbiosi, ma alla fine accettiamo. Dopo poco cominciamo la discesa che risulta davvero priva di difficoltà, e raggiunta la macchina riprendiamo la strada per casa. Angel ci propone di visitare il villaggio di Guano, vicino a Riobamba. Qui vediamo una bella chiesa, ed una bruttissima mummia nel museo-biblioteca. Facciamo i primi acquisti in un negozio di souvenir ed alle cinque siamo in albergo. Alle sei usciamo di nuovo per andare a comprare i biglietti del treno per la Nariz del Diablo, c'è una lunga fila di turisti per lo più nord-europei ed una francese che non la smette mai di parlare. Siamo un po’ stanchi, forse per l’altitudine raggiunta, presi i biglietti ci rechiamo in un caffè-ristorante dal nome pomposo “Gran Caffè Montecarlo” per una modesta cena terminata la quale rientriamo in albergo.
Venerdì,
10 Novembre, Riobamba
La sveglia suona alle 5 e 40 perché bisogna essere alla stazione non oltre le 6 e 30; io ho qualche disturbo di stomaco ed un po’ di diarrea, e prima di uscire mi imbottisco di Imodium per evitare spiacevoli situazioni sul treno. Quando arriviamo già i passeggeri si stanno sistemando sul tetto delle carrozze. E’ questa una delle particolarità di questo viaggio in treno, che dai 3300 metri di Riobamba scende fino a sotto i 1800 metri con un percorso molto ardito. Ci sistemiamo sul lato destro del tetto, come consigliato da precedenti relazioni di viaggio; ci sono molti venditori tra cui bambini e prendiamo un cuscino per mettersi seduti, scelta che si rivelerà molto felice, ed un caffè per rifocillarsi visto che non abbiamo fatto colazione. Alle sette in punto il treno parte puntuale ed attraversa Riobamba, tra i saluti della gente. Il tetto è pieno di turisti, del genere nordeuropea, biondi, con sacco in spalla ed aria vissuta; mi domando perché questo viaggio sia particolarmente affollato, mentre le bellissime destinazioni del giorno precedente erano disertate dai turisti. Comunque non si può negare la bellezza del paesaggio e ci fa anche compagnia per lungo tempo il Chimborazo. Passiamo attraverso vallate molto verdi con bei fiumi ed indios assorti al lavoro; nel frattempo i venditori di bevande e di cibarie continuano a fare pericolosamente il periplo del tetto del treno, gridando fino alla noia agua, cerveza, cola. Giungiamo alla stazione di Guamote dove il treno si ferma per una breve sosta, e sopraggiungono altre venditrici che ci offrono empanada al queso o alla banana. Si riparte ed il paesaggio va cambiando, diventando meno verde man mano che si scende. Intorno alle 11 e 30 il treno fa trionfalmente il suo ingresso ad Alausì, suonando tutte le sue trombe. Alla stazione ci sono moltissimi turisti, che si lanciano all’arrembaggio del treno per occupare gli ultimi posti rimasti sul tetto. Si riparte verso il tratto più famoso, la Nariz del Diablo, una parete di roccia perpendicolare che pareva insormontabile durante la costruzione della ferrovia Quito- Guayaquil; i tecnici americani che la realizzarono alla fine del secolo scorso la chiamarono la più difficile ferrovia del mondo. Il treno entra in questa enorme vallata brulla, e dapprima scende fino ad una stazione di scambio, dove viene invertita la locomotiva e poi risale nel tratto più scosceso e spettacolare. In alcuni punti sembra di essere sulle montagne russe. Il treno non prosegue più come una volta verso Bucay- Guayaquil, a causa degli smottamenti provocati dal Niño, ma rientra ad Alausì, dove scendiamo con il fondoschiena un po’ dolorante per le sei ore passate seduti sopra il tetto di un treno. Alle 13 e 30 prendiamo un autobus per fare ritorno a Riobamba, anche questo si riempie fino all’inverosimile e dopo due ore giungiamo a destinazione. Rientriamo in hotel per farci una doccia e toglierci di dosso la fuliggine (il treno era a vapore ed ogni tanto sbuffava una nuvoletta nera). Ci riposiamo un po’ e poi usciamo per un ultimo giro a Riobamba, che però si conferma una città priva di attrattive. Per cena, visto la comparsa di disturbi di stomaco, scegliamo un rassicurante cibo italiano e ceniamo in una pizzeria. La pizza è buona e non riesco nemmeno a finirla. In albergo giochiamo a scala quaranta ed alle dieci e mezzo spegniamo la luce.
Ci svegliamo prima di quanto previsto e pertanto decidiamo di prendere l’autobus delle nove. Ci facciamo portare al terminal terrestre e saliamo sul bus con destinazione Baños; il viaggio si rivela molto confortevole, le poltrone sono molto spaziose e la musica non è l’assordante rap in spagnolo del giorno precedente. Passato Ambato si comincia a scendere verso l’Amazzonia ed il paesaggio diventa verdissimo. Ad un certo punto sulla destra compare la sagoma del vulcano Tungurahua, e dal cratere esce molto fumo. Il vulcano è uno dei più attivi, tant’è che l’anno scorso la città di Baños è stata evacuata per quattro mesi. Arrivati al terminal, un ragazzo ci propone di pernottare nel suo albergo; non avendo nessun indirizzo di riferimento, e visto il costo irrisorio di 2 $ a persona decidiamo di andare a vedere. L’albergo è nuovissimo e molto carino, con le camere tutte colorate ed un bel giardino pieno di fiori tropicali. Ci sistemiamo ed usciamo per fare quattro passi; Baños è una graziosa cittadina turistica, molto tranquilla e piena di bar e caffè. In una agenzia prenotiamo per il pomeriggio un giro a cavallo, nelle verdissime montagne intorno alla città. Andiamo a pranzo nel Caffè Hood, sulla piazza del Municipio. Il Caffè è delizioso ed è frequentato da turisti-viaggiatori dallo zaino in spalla. Fornisce anche un servizio di scambio libri per chi è da molti mesi in giro per il mondo. Purtroppo non c’è nessun libro in italiano e non mi stupisco visto che gli italiani viaggiano e leggono molto poco. Ci cambiamo di corsa e con un furgoncino veniamo portati dai cavalli per cominciare il giro. I cavalli hanno un aspetto molto mansueto e saltiamo in sella con l’aiuto di Josè che sarà la nostra guida durante il giro. Dapprima ci rechiamo a vedere una cascata, tutta immersa nel verde e poi cominciamo a salire sulle montagne. I cavalli sono docili, ma il mio e quello di Mara tendono a stare molto vicino e si intruppano. La vegetazione è molto bella e vi sono moltissimi fiori, tra cui le ginestre fiorite, che strano vedere le ginestre fiorite a novembre, gli ibiscus e molti altri. Purtroppo il cielo è un po’ velato ed il vento mette un po’ freddo. Giungiamo in un punto panoramico molto in alto da dove si vede tutta la città di Baños racchiusa al centro della vallata; rimaniamo colpiti dalla grandezza del cimitero rapportato alla città. Cominciamo poi una ripidissima discesa ed i cavalli sono un po’ in difficoltà. Finalmente ritorniamo in città e scendiamo da cavallo dopo più di quattro ore di passeggiata. Già prevedo i dolori dei giorni a venire. Andiamo a prendere un tè al Caffè Hood e poi ritorniamo in albergo. Usciamo per un giro e conosciamo meglio Baños che pur essendo molto turistica è molto carina; le vie centrali sono piene di locali e di agenzie che organizzano escursioni nei dintorni ed in particolare in Amazzonia. Visitiamo la Basilica di Nostra Señora di Agua santa, sulle cui pareti sono affrescati degli ex-voto. Andiamo a cena in un locale messicano, Pepo’s, buona e poi un drink nell’ormai familiare Caffè Hood.
Usciamo alle ore otto con le mountainbike, è una giornata bellissima e ci rechiamo al solito Caffè Hood per la colazione, e ne usciamo dopo quasi un’ora in quanto c’era molta gente e solo una cameriera a servire, cosa che tuttavia è molto tipica in Ecuador. Ci dirigiamo con le nostre biciclette in direzione di Puno per raggiungere la famosa cascata detta El Pavillon del Diablo. Dopo pochi metri dobbiamo fermarci perché la bicicletta di Elena ha scatenato; riusciamo a rimetterla in sesto e ripartiamo. Facciamo una lunga strada in discesa e dopo qualche chilometro lanciato a folle sono io che devo fermarmi. La ruota posteriore si è allentata e la catena urta contro il telaio impedendole di girare. Tentiamo di sistemarla con la chiave inglese che ci hanno dato in dotazione e dopo poco viene anche un ragazzino a darci una mano. Ma la chiave inglese si spana e la ruota balla pericolosamente. In cerca di una nuova chiave inglese giungiamo da un ragazzo che constatato il danno si offre di affittarmi la sua per il resto della giornata. Accetto ben volentieri e finalmente si parte. La strada alterna dei tratti in discesa a dei tratti in pianura, si costeggia una vallata con un fiume e le verdi montagne sovrastanti sono ricamate da molte cascate. Dopo un po’ finisce la strada asfaltata e comincia una strada bianca. Costeggiamo una centrale idroelettrica da 160 MW ed il pensiero va per la prima volta dopo tanto tempo al lavoro, e poi passiamo sotto una cascatella con doccia incorporata. Si alza un forte vento e quando ci sono le salite ci tocca pedalare controvento; inoltre ogni macchina o autobus che parte solleva molta polvere e dopo poco siamo molto sporchi e assetati. Ci fermiamo per bere Coca Cola e quando ripartiamo Elena scatena per una seconda volta, ma ormai siamo diventati esperti e dopo pochissimo siamo di nuovo in marcia. Giungiamo dopo venti chilometri di pedalata in una località chiamata Rio Verde. Qui bisogna lasciare le biciclette e proseguire per un chilometro a piedi per giungere alle cascate. Il sentiero in discesa è molto bello in mezzo alla foresta e si possono ammirare fiori colorati e belle vedute del sottostante fiume. Giungiamo nei pressi del ponte sospeso, un ponte tibetano tenuto da potenti funi di acciaio, ma molto traballante, non più di cinque persone alla volta. Dal ponte si ha una bellissima vista su una parte delle cascate, nonostante gli ondeggiamenti del ponte sospeso. Ci rechiamo poi al vicino mirador dove si può ammirare nel pieno della sua potenza la cascata del Pavillon del Diablo. E’ un getto molto potente che cade in una vasca naturale di roccia con molta forza e rumore. Ritorniamo indietro questa volta in salita e al termine ci fermiamo per un’altra Coca Cola. Aspettiamo l’autobus per ritornare a Baños, non è il caso di tornare in bicicletta, aspettiamo più di mezz’ora, ma il bus non si vede. Riusciamo trovare un passaggio su un pick-up e facendo la strada a ritroso ci accorgiamo che abbiamo pedalato parecchio. Ci facciamo lasciare davanti alla casa del ragazzo che mi ha affittato la seconda bicicletta; nel frattempo ha provveduto anche a riparare quell’altra a cui si era distrutto il cuscinetto di guida della ruota. Ripartiamo ed affrontiamo la salita che porta a Baños; siamo a circa duemila metri di altezza e dopo un po’ bisogna scendere e spingere a piedi, non siamo mica al tappone sulle Alpi del Giro d’Italia. Raggiungiamo il terminal degli autobus e di nuovo al Caffè Hood per uno spuntino, mangio un gustoso piatto tailandese, poi tutti in albergo a lavarci dalla polvere della giornata. Usciamo per fare quattro passi per la città, ceniamo in un ristorante per locali, un quarto di pollo a testa, e ci rechiamo verso il Caffè Hood. Ma in lontananza scorgo la sagoma di Giuseppe, l’italiano noioso che stava in crociera alle Galapagos, e con una rapida corsa ci allontaniamo. Dopo un po’ per vie traverse entriamo al Caffè Hood per gustarci una favolosa torta all’ananas. Torniamo in hotel, e la luna piena contornata da tre pianeti, Giove, Marte, Mercurio, offre uno spettacolo indimenticabile spargendo la sua luce d’argento su tutta la valle. La sera si conclude con una sbornia di rum e la solita scala quaranta.
Lunedì,
13 Novembre, Latacunga
Usciamo alle otto dall’albergo con gli zaini in spalla ed andiamo al Caffè Hood per fare colazione. Purtroppo è ancora chiuso e ci tocca ripiegare sul più anonimo Rico Pan, per una colazione da dimenticare. Andiamo al terminal degli autobus e saliamo sul primo con destinazione Latacunga- Quito. Vedo per l’ultima volta la sagoma fumante del Tungurahua; la strada è molto bella, la famosa via dei vulcani, così chiamata dal naturalista Humboldt (mi ricorda anche una legge della fisica, ma non so più quale). Dopo poco possiamo ammirare il Chimborazo sulla sinistra ed il Cotopaxi sulla destra. La sagoma di questo vulcano non ci abbandonerà più fino all’arrivo a Latacunga. Qui andiamo all’hotel Tilipulo, segnalato da una relazione di viaggio che avevamo; c’è posto e ci accoglie la simpatica proprietaria Lucilla, un po’ logorroica ma molto simpatica. Visto la splendida giornata decidiamo di partire subito per l’escursione al Cotopaxi, Lucilla si incarica di trovarci un taxi di fiducia e ci porta da Luis che si dimostrerà un bravissimo autista, anche se rimane stupito dal fatto che in Italia non crescano l’ananas ed il mango. Percorriamo la Panamericana ed oltre il Cotopaxi osserviamo le vette innevate dei due vulcani Illiniza. Entriamo nel parco nazionale del vulcano e cominciamo a salire lungo una strada sterrata che si arrampica piano piano sulle pendici del vulcano. Questo con i suoi 5900 metri è il vulcano attivo più alto del mondo, anche se da parecchi anni non erutta più, ma in passato ha distrutto più volte la città di Latacunga. Giungiamo fino in cima alla strada, a 4.600 metri, e qui lasciamo la macchina per proseguire a piedi. Il Cotopaxi ha un cono quasi perfetto ed in queste giornate di sole offre uno spettacolo grandioso. La salita al rifugio, come al solito è molto faticosa a causa dell’altezza e della pendenza, e procediamo molto cauti. Ci mettiamo quasi un’ora per percorrere i duecento metri di dislivello con il rifugio situato a 4.800. Qui compriamo della cioccolata e continuiamo verso i ghiacciai. Sarò banale ma questo spettacolo naturale è grandioso e ci si sente spinti a salire sempre più in alto fino a conquistare la vetta del vulcano. Purtroppo non siamo alpinisti e bisogna ritornare indietro. Prendiamo nuovamente il taxi e discendiamo fino alla laguna di Limpiolungo, un lago andino fino a 3800 metri. Ci sono moltissimi uccelli che vi vivono, e lo spettacolo della laguna con lo sfondo del vulcano è grandioso. Stanchi e impolverati ritorniamo all’hotel, dove ci intratteniamo un po’ con Lucilla, che ci accompagnerà domani all’escursione alla laguna di Quilotoa. Doccia fredda e poi un po’ di riposo. Usciamo per cena, la città sembra deserta; nel ristorante dove andiamo siamo gli unici clienti, ma mangiamo molto bene, un’enorme parrillada.
Martedì,
14 Novembre, Latacunga
Sveglia alle 6 e 45, colazione alle sette e un quarto e poi partiamo per l’escursione alla laguna di Quilotoa con una macchina 4x4 guidata dall’intraprendente Lucilla. Passiamo per alcuni paesini, tra cui Pujilì e continuiamo verso oriente nella provincia del Cotopaxi. Dopo poco saliamo ed entriamo in una parte dell’Ecuador abitata da sole popolazioni indios indigene. Purtroppo la giornata è coperta, ma nonostante le nubi possiamo ammirare il paesaggio, e le montagne divise in tanti riquadri nel tentativo di sfruttare il più possibile la terra da coltivare, nonostante la difficoltà data dall’altitudine e dal tipo di roccia lavica presente; è la famosa steppa detta il paramo. Sulla strada vi sono molti indios, spesso insieme ai lama o ad al altri animali di allevamento. Facciamo una sosta nel villaggio di Zambagua; la popolazione ci guarda un po’ con diffidenza, ma tiriamo fuori la Polaroid e dopo poco sono tutti in fila per essere fotografati, ci offrono anche dei soldi. Ripartiamo e dopo un’ora di macchina giungiamo finalmente alla laguna di Quilotoa. Questa è una bellissima laguna di natura vulcanica; il cratere è tutto ricoperto di vegetazione ed il bacino d’acqua è di un verde intensissimo con variopinte sfumature in prossimità della costa. Scendiamo a piedi verso il lago, dopo aver contattato gli indios con i muli per la risalita; la discesa è abbastanza agevole, vista ormai l’esperienza dei giorni precedenti alle alte altitudini, la laguna è solo a 3800 metri di altezza. Lucila continua a ripetere che è tutto muy, muy hermoso. Arrivati in fondo sulle rive del lago, sostiamo un po’ e facciamo delle Polaroid ai quattro indios che ci devono riaccompagnare in salita. Nel frattempo una fitta nebbia sta calando dall’alto; decidiamo di ripartire, a me tocca una piccola mula che arranca con difficoltà sulle ripide salite. Quando ormai tutti mi hanno distanziato e la mula è sempre più precaria sulle salite, mi arrabbio, scendo e decido di continuare a piedi. Mi faccio una bella scarpinata e nel frattempo la nebbia ha invaso tutto il cratere e non ci si vede più nulla. Arrivati in cima, Lucila ci porta in una casa privata, dove consumiamo le provviste che lei aveva portato per noi, pop-corn, formaggio fresco, pane e frutta. La casa è l’abitazione del pittore Humberto Latacunga che dipinge graziosi quadretti su tipici temi andini, in stile vagamente naif; ne compriamo alcuni e ripartiamo per ritornare all’hotel. Il ritorno è abbastanza disagevole a causa di una fitta nebbia padana che ci accompagna fino alle porte di Latacunga. Questa volta aspetto per farmi la doccia in attesa dell’acqua calda. La sera usciamo alle sette per cenare, avendo imparato che alle otto i ristoranti sono già tutti chiusi. Ceniamo in un ristorante ecuadoriano con dell’ottima chuleta (braciola di maiale) e poi subito a nanna.
Mercoledì,
15 Novembre, Latacunga
Giornata di tutto riposo, dopo il cavallo, la mountain bike e i trekking a 5000 metri dei giorni precedenti. Ci alziamo con tutta calma e fatta colazione prendiamo un autobus per Pujilì, un paesino a pochi chilometri da Latacunga dove il mercoledì si tiene un mercato che ci dicono molto interessante, dove ancora viene praticato il baratto dai numerosi indigeni che vi scendono per scambiare le loro merci agricole. Il mercato tuttavia è per noi una delusione, soprattutto se paragonato con il mercato di Guamote; il mercato infatti è molto più piccolo e meno colorato, anche se effettivamente vi vengono scambiate le merci, cipolle con banane, erba per gli animali con spezie varie. Giriamo un po’ per il mercato ed in fondo c’è anche una sezione turistica con maglioni, coperte ed altri oggetti in puro stile andino. Da bravi turisti facciamo le nostre compere, anche perché si avvicina il momento del ritorno a casa. Facciamo un altro giro per il mercato, passiamo davanti al parcheggio per i lama, dove gli indios hanno lasciato gli animali con i quali sono venuti al mercato. Il paese è molto pulito e passando davanti ad una peluqeria decido di entrare per farmi ritoccare la barba, incolta da tre settimane. Un barbiere con l’atteggiamento molto professionale fa un ottimo lavoro e pago soddisfatto il dollaro richiesto. Prendiamo l’autobus e verso le 11 e 30 rientriamo a Latacunga, che fino ad adesso avevamo visto solo di sera. Facciamo un giro per il centro, e pur non avendo edifici particolarmente interessanti (il paese è stato distrutto quattro volte dall’eruzione del Cotopaxi) ha un aspetto carino con tipiche case realizzate con nera pietra lavica. Mi fermo in un Internet Point per leggere la posta elettronica e vedere gli ultimi aggiornamenti dall’Italia. Vedo anche che a Viterbo sta piovendo. Mangiamo un buon cheeseburger e continuiamo il giro nella bella piazza del Parque Vicente Leon, dove ci intratteniamo con alcuni bambini lustrascarpe, immortalati con l’immancabile Polaroid. Nel pomeriggio rientriamo in albergo, dopo aver comprato il rum di scorta, per un lungo riposo, durante cerchiamo di pianificare il viaggio al nord. Alle sette usciamo per la cena, ma tutti gli ecuadoriani stanno davanti alla televisione a vedere la partita Venezuela-Ecuador valida per le qualificazioni ai mondiali del 2002. La cosa più interessante sono le grida del cronista ogni volta che viene segnato un gol, nel puro stile brasiliano. Entriamo in un ristorante ecuadoriano e mangiamo una enorme porzione di pollo alla brace, davvero molto buono. Nel frattempo finisce 2-1 per l’Ecuador e rientriamo in hotel.
Colazione alle sette e poi andiamo al terminal per prendere l’autobus per Saquisili dove il giovedì c’è uno dei più importanti mercati dell’Ecuador. Il bus si riempie subito di moltissimi locali, alcuni carichi di merci da vendere, ed il pullmann è stipato fino all’inverosimile. Dopo una mezz’oretta arriviamo a destinazione. Il mercato è enorme e si svolge su ben otto piazze, ci dirigiamo verso il mercato del bestiame attraverso una via con delle bancarelle tipo fiera di Santa Rosa. Il mercato, anche se assolutamente non turistico, non è suggestivo come quello di Guamote e gli stessi indios appaiono vestiti in maniera meno colorata e un po’ più occidentale rispetto a quelli dell’altro mercato andino. Giungiamo nella piazza ed è tutto un vociare di animali; dapprima una moltitudine di galline; vengono offerte anche ad Elena, ma è un po’ difficile portarle in Italia, quindi rifiuta. Poi vediamo moltissimi porcellini d’india che qui sono una prelibatezza culinaria (il cui). Passiamo poi a vedere il mercato della frutta e della verdura e scattiamo alcune foto, nonostante l’ostilità dei soggetti. Ci dirigiamo verso l’altra piazza e facciamo sosta presso alcune bancarelle per turisti (sono limitate ad una sola via) dove continua la campagna acquisti. Gironzoliamo anche per un’altra piazza e verso le dieci prendiamo l’autobus per ritornare a Latacunga. Torniamo in albergo a prendere le valigie e con il taxi di nuovo al terminal questa volta in direzione Quito. Alle undici siamo di nuovo in partenza e dopo un’ora e mezzo raggiungiamo la periferia meridionale di Quito; entriamo nella città ed intorno all’una siamo al terminal, posto proprio sotto al Panacillo. Il tempo di una breve sosta ai servizi igienici (H.H.S.S.) e siano di nuovo su un autobus, questa volta con destinazione Otavalo, l’ultima tappa del nostro viaggio. Partiamo all’una e l’autobus attraversa la parte settentrionale della città cercando di far salire più persone possibili; ci dirigiamo verso nord, ed il paesaggio diventa molto verde anche se non possiamo vedere i vulcani a causa della nebbia. Incomincio a sentire un po’ di stanchezza ed il viaggio dura circa tre ore. Alle sedici in punto arriviamo ad Otavalo, e ci facciamo portare da un taxi all’hotel Doña Ester, hotel utilizzato da un gruppo di Avventure nel Mondo di cui avevo la relazione. C’è qualche problema per la notte di venerdì, ma alla fine ci danno una stanza; l’hotel è davvero carino, è proprio vero che Avventure nel Mondo non è più quella di una volta ed è anche il più caro degli hotel utilizzati fino ad ora. C’è un bel patio di stile spagnoleggiante, sul quale si affacciano le entrate delle camere; la nostra è tutta in legno con le lenzuola gialle; c’è anche un terrazzino da cui si vede una piazza con una bella chiesa. Usciamo subito perché è dalle sette che non mangiamo, e con fatica troviamo un posticino dove ci servono un sandwich con huevas revueltas e patate fritte. Cerchiamo poi un’agenzia per l’escursione di domani ad El Angel, ma l’unica possibilità sono i mezzi pubblici, in quanto il parco è abbastanza lontano. Decidiamo di andare lo stesso e gironzoliamo per Otavalo, vera e propria patria dell’artigianato "made in Ecuador", e procediamo con le compere. Beviamo un tè alcolico e rientriamo in albergo per una doccia finalmente calda.Usciamo per cena e girovaghiamo un po’ per Otavalo, ma ci rendiamo conto che le uniche alternative possibili sono il solito pollo arrosto nei tipici locali ecuadoriani oppure la pizza in ristoranti pseudoitaliani. Siamo già rassegnati quando intravediamo un’insegna con la scritta, Paris entriamo e ritroviamo in un bel ristorante francese, con un cuoco francese di Francia. Seduti ci si avvicina una signora italiana di Pisa, da più di due anni in Ecuador che si siede al nostro tavolo. Nel frattempo che ordiniamo ci racconta la sua vita e ci dice che sta per trasferirsi in Colombia in quanto ha appena sposato un colombiano. Mangiamo una squisita trota al limone e poi rincasiamo subito perché il giorno dopo abbiamo una levataccia.
Alle sei siamo già in strada per dirigersi al terminale degli autobus. La città è ancora deserta, ma l’alba è bella e si vedono le montagne intorno ad Otavalo. Prendiamo il primo autobus per Ibarra e dopo mezz’ora arriviamo. Qui compriamo i biglietti per El Angel, cittadina ai confini con la Colombia dove c’è la riserva naturale che vogliamo visitare. Dopo mezz’ora di attesa arriva il bus e si parte verso nord; il paesaggio cambia così come la fisionomia delle persone, ce ne sono molte di carnagione nera. I villaggi che attraversiamo danno la sensazione di essere cittadine di frontiera, con la loro piazza grande, la chiesa e le vie semideserte. Alle 9 e30 arriviamo a destinazione, e andiamo in un negozio per fare finalmente colazione con tè e paste. Ci rechiamo in piazza, dove cerchiamo un pica (pick-up) per andare alla riserva. Contrattiamo un po’ e poi partiamo nel retro della macchina. Prendiamo una strada bianca che sale di quota, il paesaggio è rigoglioso e ci sono molti fiori, alcuni rossi a grappoli, altri rosa. Ad un certo punto si comincia a scorgere l’oggetto della nostra escursione, i frailejones, delle bellissime piante appartenenti alla famiglia delle margherite che raggiungono altezze anche superiori ai due metri. Siamo a quota 3700 e dopo poco queste piante cominciano ad essere diffuse a perdita d’occhio, ricoprendo montagne e vallate: una vera foresta di margherite. Alcune hanno dei grappoli di fiori gialli, le margherite appunto. Giungiamo all’ingresso del parco; fa molto freddo ed il guardiano si sta scaldando vicino ad un camino. Paghiamo il solito caro biglietto di ingresso (10 $) e cominciamo un’escursione su un sentiero che porta ad una laguna; ovunque frailejones di tutte le altezze. Dopo trenta minuti di camminata scorgiamo una serie di lagune e scendiamo sulla riva di quella più vicina. Costeggiamo lo specchio d’acqua, mentre comincia a scendere la solita nebbia, e poi ritorniamo non utilizzando lo stesso sentiero dell’andata, ma una scorciatoia che un cartello indica adatta solamente “para corazones sanos”. In effetti c’è da salire parecchio sopra una ripida montagna, ma non è niente di che. Ritorniamo al pick-up che ci riporta al paese. Qui in attesa dell’autobus compro una porzione di maiale fritto, con patate lesse e mais. E’ speciale. Riprendiamo l’autobus all’una, e questa volta ci porta ad Otavalo direttamente in circa due ore e mezza. Rientriamo in hotel e quindi usciamo per fare qualche acquisto al mercato di Otavalo. Mi fermo in un Internet Point, e poi doccia in hotel. La sera andiamo a cena nel ristorante dell’albergo, dove mangiamo una buonissima pizza, cotta nel forno a legna e con pure la mozzarella. Rum e carte prima di partire.
Oggi è l’ultimo giorno in Ecuador, e un po’ di tristezza c’é. Ci alziamo con comodo e usciamo per Otavalo per vedere il grande mercato del sabato. Tutta la città è invasa dalle bancarelle fin dalla piazza vicino all’hotel. Ci rechiamo a fare colazione e poi senza pensarci due volte nel mercato turistico. Ci sono tutti gli artigiani di Otavalo che vendono le loro merci, in prevalenza tessuti ed abbigliamento in lana. Il mercato è prettamente turistico, ed infatti vi sono molti gringos giunti apposta per l’occasione ed i prezzi sembrano lievitati rispetto alla sera prima. Sono giunti anche moltissimi mendicanti, in particolare vecchie sdentate e piuttosto malconce. Io compro subito una borsa per mettervi gli acquisti del giorno precedente, e non resisto alla tentazione di un bel maglione azzurro che pago ben sette dollari dopo lunga contrattazione. Gironzoliamo per il mercato, anche nella parte non turistica, mentre Elena continua a comprare maglioni e capelli ogni cinque minuti. Alle undici ci rechiamo in albergo per fare la valigia, ed a mezzogiorno ci facciamo portare da un taxi al terminal per prendere l’autobus. Sentiamo il suono familiare di Quito, Quito, Quito, così come lo era stato Dorado, Dorado, Dorado e saliamo per l’ultimo viaggio in bus. Questo è particolarmente rumoroso, ed ad un certo punto esce pure fumo vicino all’autista, ma è tutto normale ed alle due facciamo l’ingresso nel terminal terrestre di Quito. Mangiamo un boccone e ci facciamo portare a casa di Pierfabio. Ci accoglie con la solita ospitalità Monica, il marito sta alle Galapagos, e ci intratteniamo con lei ed i suoi bambini, Simonetta e Piersito, mangiando empanadas e caffè. Ci racconta un po’ della sua vita e della sua brillante carriera alla Direzione antidroga e all’Università che ha interrotto per crescere i suoi figli, cosa della cui è molto contenta. Alle sette ceniamo e Monica ci ha preparato una buonissima cena ecuadoriana, con zuppa di verdure, pesce (la famosa corvina) ed un dolce tipico fatto con fichi, formaggio e miele. Ci intratteniamo a chiacchierare anche dopo cena e Monica ci spiega la sua teoria sull’energia che emanano le persone e di riflesso le case in cui vivono. La sua casa all’inizio era piena di energia negativa, ma ora fortunatamente è divenuta positiva. Anche noi fortunatamente emaniamo energia positiva ed in effetti c’è molto feeling. Monica pur avendo studiato in una Università dei gesuiti ha convinzioni molto luterane; ogni persona è artefice del proprio successo o insuccesso e nella vita bisogna prefiggersi degli obiettivi ben definiti da conseguire con costanza e determinazione. Alle dieci ci rechiamo a dormire, nella nostra stanza con vetrate con vista su tutta Quito, illuminata dalle luci artificiali, e mi addormento con il pensiero del ritorno.
Domenica,
19 Novembre, In volo- Lunedì, 20
Novembre, Viterbo
Si parte…, fatta la solita buona colazione, con un taxi si va all’aeroporto ed alle nove e quaranta si parte, con destino Miami. L’aereo dell’American Airlines è pieno questa volta, e poi a Miami sosta di tre ore e poi di nuovo ci si imbarca per Londra, con il megaaereo dell’andata. Questa volta per cena ci servono gamberi e salmone, chissà cosa daranno in prima classe. Il volo è più breve di quello dell’andata per effetto delle correnti d’aria e alle sei e trenta del giorno dopo siamo a Londra; è lunedì mattina, e piombiamo repentinamente nell’inverno inglese. L’ultimo volo per Roma ed alle 12 e 30 atterriamo a Fiumicino. Le valigie questa volta arrivano immediatamente, andiamo alla stazione e dopo due minuti ho il treno; faccio appena in tempo a salutare Mara ed Elena e via, ultima destinazione Orte, e da qui con la macchina a Viterbo, casa dolce casa.