HO LA DEPRESSIONE DANCALA!

 

27-28 Dicembre, Awash

Del lungo volo che da Milano mi porta ad Addis Abeba, con il solito lungo scalo tra i cammelli di pelouche dell’aeroporto del Cairo, c’è poco da ricordare se non la stanchezza che si è accumulata come ogni anno all’avvicinarsi delle festività natalizie e lo stress residuo della valigia e dello zaino da riempire. Alla 3 di mattina siamo tutti in fila per farci rilasciare il visto di ingresso in Etiopia, previo il pagamento di 20 $ ad una addetta che con flemma tutta ministerial- africana mi consegna la ricevuta ed applica un bel talloncino adesivo sulle pagine vuote del mio passaporto. All’uscita dell’aeroporto, ricompattato il gruppo, ci accoglie l’ultimo spicchio di una luna africana comodamente adagiata con la gobba in basso, ed un minivan che ci porta a pochissime centinaia di metri, in un albergo dal nome pretenzioso di Ambassador. Nonostante la stanchezza cronica non si può andare a letto senza prima aver carpito la password del wi-fi,  per riconnetterci con i nostri smartphones a tutto quanto ci siamo separati da poche ore. Al mattino, dopo la colazione a buffet, ci ritroviamo al settimo piano , in una bella sala conferenze per il briefing del capo Max, ed espletate tutte le ultime formalità burocratiche e cambiati 50   in Birr, la moneta locale, ci dirigiamo verso l’ufficio di Jonas, il titolare dell’agenzia Belle Abyssinia , che ha organizzato la spedizione in Dancalia e ci fornisce  4 Toyota sulle quali siamo sistemati noi 13, più una quinta di appoggio con tutte le provviste ed il materiale per la logistica. Alle 10,36 in punto, ora locale siamo finalmente in marcia per le vie trafficate di Addis Abeba, tipica capitale del terzo mondo, con tanto disordine, palazzoni in costruzione, ponteggi fatti di pali storti di legno, ed una colorata ed affaticata umanità che vive e lavora ai margini delle strade. Percorriamo la strada trafficatissima nella comoda e spaziosa Toyata, io, Lia , Maurizio ed il nostro giovane autista che si chiama Habte, viene dalla regione del Tigrai e parla un più che discreto inglese. La città si estende in maniera indefinita, continua e caotica tra lunghe file di camion e le cupole di chiese cristiane, che oggi sabato sono prese d’assalto da centinaia di fedeli in particolare quella di san Gabriele, il santo patrono, protettore della chiesa di Etiopia. Il paesaggio è monotono e poco interessante ed il traffico di camion ci accompagna fino alla città di Nazret, la terza città dell’Etiopia per numero di abitanti dopo la capitale e Makallé; Nazret, che come ci dice Habte, si chiama Adama in lingua oromo , è una città moderna ed abbastanza ordinata, con un grande viale dove ci fermiamo a mangiare in un bel ristorante con giardino.  Qui bevo la mia prima birra in terra etiope, la St. George, sulla quale come nei carrugi di Genova, campeggia san Giorgio a cavallo che trafigge il drago. Alle 15,30 riprendiamo la marcia, mentre il paesaggio diventa molto più bello e vario, con grossi cumuli vulcanici, acrocori, piantagioni di cotone che si alternano con il tipico panorama del bush, della savana africana. Si nota un grosso processo in corso di ammodernamento delle infrastrutture, ad opera dei cinesi che sono i nuovi colonizzatori dell’Africa, strade in cambio di materie prime; incrociamo pezzi di autostrada ed una nuova ferrovia che dovrà sostituire quella vecchia, costruita da i francesi, che è stata dismessa; lungo la strada tanti venditori di frutta, soprattutto grosse angurie; anche i nostri autisti si fermano più volte a fare rifornimento di frutta, per fare delle scorte in previsione delle necessità dei prossimi giorni. Giungiamo in prossimità di un grande lago salino, che Habte dice essere il lago Koka, anche se dalla cartina sembrerebbe essere il lago Basaka; imbocchiamo la nuova strada, osservando la vecchia che correva a bordo lago ed in parte ne è stata inghiottita a seguito dell’aumento del livello del lago. Ci fermiamo di nuovo a comprare la frutta in un villaggio che dovrebbe chiamarsi Metahara, e scendiamo proprio difronte ad una bancarella che vende il qat fresco, che mi sembra diverso ai quello che avevo visto un po’ ovunque in Yemen,  in grossi sacchi bianchi. Mi viene subito offerto da comprare  da persone molto sorridenti e piacevolmente divertite dalla situazione, ma declino gentilmente l’invito. Siamo ai margini della regione Afar e sulla strada che sta scendendo rapidamente di quota, si affacciano  pastori e le tipiche capanne a forma di cupola. Alle 17,40 facciamo l’ingresso al parco nazionale dell’Awash, mentre il disco rosso del sole comincia la sua discesa verso la linea dell’orizzonte. Ci imbattiamo subito in tre grossi orici e percorriamo la strada fino al lodge, situato in prossimità delle famose cascate del parco, nella gola dove scorre il fiume Awash,  il più lungo dell’Etiopia che finisce poi per perdersi nella depressione della Dancalia, senza riuscire ad arrivare al mare. Prime foto al tramonto e ci sistemiamo in camera al lume di candela, essendo il lodge sprovvisto di elettricità. Cena alle 20 in un bel contesto , un po’ troppo turistico, con contorno di danzatori Afar , sotto una stellata, questa sì veramente autentica e mozzafiato.

 

 

29 Dicembre, Afrera

 Lunga giornata di trasferimento verso nord: sveglia alle prime luci dell’alba, colazione nel bel ristorante del lodge, con vista cascate, che consta di una omelette un po’ scarsina e salutato lo struzzo che scorrazzava tra i bungalow, alle 7 e un po’, siamo in marcia, macchina numero 3 con Enrico e Monica. Il nuovo autista, a differenza di quello del giorno prima, è estremamente silenzioso e riservato, forse semplicemente non parla inglese. Riprendiamo la trafficata strada per Gibuti, tra baracche di lamiera e babbuini. Il numero di camion che circolano è enorme, e dopo pochissimo rimaniamo intrappolati nel traffico di un grosso ingorgo, in prossimità di enormi lavori di costruzione di una nuova strada che costringono a transitare su un ponte a senso unico alternato. Perdiamo più di un’ora a causa dei lavori in corso, ma ci consoliamo guardando in senso contrario lo spettacolo di tutti i mezzi e le persone che ritornano dalla grande festa di San Gabriele, che ha avuto l’epicentro nella cittadina di Kulubi, dove si trova il più importante santuario dedicato all’Arcangelo. Le macchine e gli autobus dei pellegrini sono addobbati con fiori, croci e le bandiere delle rispettive regioni di origine. Siamo di nuovo in marcia, sulla lunga striscia di asfalto nuova di zecca che corre infinita  tra bassi cespugli spinosi; poco prima delle 11 ci fermiamo per una sosta caffè in un localino di passaggio, con annessa sala bigliardo e una televisione che trasmette il notiziario locale; tutto intorno mercato di stracci e umanità varia di bambini curiosi, pastori e donne colorate. Si riprende il viaggio tra file interminabili di grossi sacchi di carbone marroni, con la punta conica bianca; si alternano paesaggi vulcanici con prati gialli, cumuli lavici, grosse pietre nere e piccoli laghi. Alle 14,30 sosta pranzo al Nazret restaurant, con la quota altimetrica che sta rapidamente diminuendo e le temperature che stanno di conseguenza salendo: il menù prevede spaghetti o capra, che ci viene portata in una grossa padella, a piccoli pezzi guarnita con cipolle, una vera prelibatezza. Alle 16 ripartiamo e dopo un’ora lasciamo la Gibuti road e svoltiamo a sinistra; pochi mezzi e pochissime persone sulla strada, dall’aspetto poverissimo, che salutano al passaggio delle nostre macchine; giovanissimi pastori e pastorelle, ignari abitanti di questa sperduta parte del mondo, chissà cosa si prova a crescere e vivere in questa landa infuocata, e chissà cosa pensano di questi buffi signori che si spingono fin qui, sfrecciando  nei loro comodi fuoristrada! Tutto intorno la natura sta cambiando e l’unico aggettivo che mi viene in mente per descrivere il paesaggio è lunare, pianure di lava e montagne che si stagliano nitide sul cielo rosato del tramonto, dove vedo apparire la lucente stella di Venere. Poi all’improvviso piomba il buio e continuiamo la nostra lunga traversata di avvicinamento al lago Afrera.  Alle 19,30, attraversiamo un piccolo paese di baracche, piuttosto animato, al termine del quale intravediamo una sorta di piazzola di terra battuta, dove sono state montate le tende e allestita la cucina da campo : tutti a cena , spaghetti sotto le stelle.

30 Dicembre, Erta Ale

La notte in tenda è passata tutto sommato bene, e come mi alzo vedo Enrico che è appena tornato da un bagno nelle acque termali subito dietro il campeggio: in due secondi sono in costume e mi metto a mollo nella pozza calda adiacente le acque increspate del lago. Che libidine stare immersi nell’acqua caldissima; oltre a una buona metà del nostro gruppo ci sono anche i locali che ne approfittano per lavarsi e farsi lo shampoo. Dopo un inizio di giornata così piacevole ed inatteso, andiamo ad esplorare i dintorni del lago Giulietti, ribattezzato Afrera, posto ad oltre centoventi metri sotto il livello del mare, leggermente increspato dal vento,  dal colore un po’ livido e dalla schiuma salina. Intorno al lago esistono molte vasche per la raccolta del sale, che costituisce la principale fonte di sussistenza delle zone. Intorno alle vasche grossi cumuli bianchi, intorni ai quali si affaccendano uomini con carriole colorate per trasportare il prezioso minerale dalle vasche dove è rimasto per decine di giorni ai cumuli, dove viene insaccato e caricato sui camion che percorrono la strada asfaltata costruita dai cinesi. La temperatura sale implacabile, siamo già ben oltre i trenta gradi, e conferisce un aspetto da girone dantesco a tutta la scena, che comunque ben si presta agli scatti dei fotografi. Alle dieci in punto partiamo, macchina numero 2 con Enrico e Lia, autista Ashu, giovane e loquace. Ci fermiamo dopo pochi metri nel villaggio di Afrera, per gli ultimi acquisti logistici necessari per la salita al vulcano Erta Ale. Ci gustiamo l’ultima coca cola gelata, servita da una bella ragazza, che esaurite presto le sue scorte va dalla vicina a barattare Fante con Coche. Dopo pochi km finisce la strada asfaltata e superato un posto di blocco, svoltiamo a destra nella piana dei vulcani. Ashu guida sicuro il suo fuoristrada sugli sterrati e sui sentieri di lava, mentre all’orizzonte incombe la sagoma di una grossa montagna. Il termometro della macchina ha già superato i 38 °C , e mi domando cosa mi abbia spinto a venire fino qui, a fare le vacanze di Natale in quello che viene definito uno dei luoghi più inospitali del pianeta, la mitica depressione della Dancalia, ancora inesplorata agli inizi del novecento. A mezzogiorno arriviamo al punto di controllo per espletare le formalità burocratiche, e registrarsi, considerando che siamo vicinissimi al confine con l’Eritrea, in una parte di mondo assai turbolenta. C’è un agglomerato di baracche con bambini che chiedono quaderni e povertà tangibile ad ogni passo: entriamo in una capanna e ci sistemiamo su dei materassini, dove tra sciami  implacabili di mosche ci servono il pranzo, riso con verdure che trangugio con gusto. All’una ripartiamo per l’ultimo tragitto, tra spianate di lava e cammelli erranti, senza alcuna traccia di vegetazione, fino alle 15,15 quando arriviamo al campo base. Jonas va ad organizzare la spedizione, in particolare i cammelli che servono a trasportare tutto il materiale necessario fino al cratere del vulcano, e che servono anche da mezzo di locomozione a chi dovesse avere difficoltà nella salita. Il caldo è asfissiante e l’ambiente davvero poco invitante, tra baracche, sporcizia e militari che girano con il kalashnikov; i preparativi si dilungano oltre il previsto, e facciamo in tempo a fare uno spuntino prima della salita, il cuoco ci ha preparato un bel brodino caldo di verdure. Finalmente alle 18 ci mettiamo in cammino, e dopo poco è subito buio e saliamo solamente con la luce delle nostre torce portatili, come dei minatori. Abbiamo anche una scorta armata, un ragazzino magrissimo con ciabattine verdi di plastica e kalashnikov in spalla. La salita non è particolarmente faticosa, il dislivello è molto dolce, in fondo il cono dell’Erta Ale è a soli 588 metri sul livello del mare: camminiamo con la carovana di cammelli al seguito nel buio più completo, non c’è neanche la luna, ma solo Orione che risplende luminoso e nitido proprio davanti a noi e ci guida come la cometa con i re Magi. La strada è una colata solidificata di lava, che nell’ultimo tratto sale più rapidamente e si impenna per raggiungere dopo tre ore e un quarto dalla partenza un piccolo agglomerato di capanne dove sono di stanza i militari che presidiano la zona e dove trovano riparo i turisti che si spingono fino a quassù. Alla fine del l’insediamento appare la vista sul cono del vulcano che fuma e  risplende di bagliori di rosso! Grande spettacolo della natura, emozione ancestrale del fuoco che arriva direttamente dalle viscere della terra. Prima di scendere al vulcano dobbiamo rifocillarsi con una pasta fredda e scotta servita accanto agli escrementi caldi e fumanti dei cammelli: anche questo sarà un momento magico da ricordare! Rompiamo gli indugi, e vista l’impossibilità di campeggiare a ridosso del vulcano, scendiamo nella piana della caldera, con la lava solida che cede e scricchiola sotto i nostri passi. Giungiamo sul bordo del vulcano rapiti dallo spettacolo grandioso del fuoco e del magma bollente che ribolle a pochi metri sotto i nostri occhi, nel cerchio perfetto del cratere dell’Erta Ale. La temperatura e l’odore acre dei vapori di zolfo sono praticamente insopportabili, ma spostandosi lateralmente tutto cessa per incanto. Rimango in contemplazione per più di un’ora della lava che schizza, si solidifica, si fessura ed esplode di nuovo con violenza e con bagliori di luce rossa che rompono il buio della grandiosa notte africana. Con questo spettacolo negli occhi ce ne andiamo a dormire sul lercio pavimento di terra delle nostre capanne.

 

 

31 Dicembre, Ahmed Ela

Appena svegliati all’alba scendiamo subito al cratere del vulcano, per ammirare di nuovo lo spettacolo della lava mentre ad oriente comincia a farsi chiaro ed il sole sorge dalla spianata di lava dell’Erta Ale; con la luce del mattino il ribollire del magma fa meno paura rispetto alla sera precedente, ma l’apparire del rosso infuocato dal grigio della lava solidificata è sempre uno spettacolo emozionante. Alle 8,15 prima che le temperature diventino insopportabili, cominciamo la discesa di ritorno al campo. La camminata è molto agevole, e possiamo ammirare tutti i panorami che la notte aveva nascosto; il caldo comincia ben presto a farsi a sentire ma dopo 2 ore e mezza di cammino sono in arrivo al campo base, dove ci accoglie il cuoco Michi con fette di anguria fresca, ma cosa ancora più gradita è stata montata una doccia da campo, mettendo un serbatoio d’acqua sul tetto di una Toyota: Mi metto subito in mutande per togliermi di dosso la polvere e gli odori di questi due giorni. Nel frattempo che ci laviamo tutti, i ragazzi dello staff apparecchiano la colazione sotto un tendone che viene teso fra due macchine, e ci rifocilliamo con dell’ottimo pancake caldo e pane fresco.  Alle 14 saliamo di nuovo in macchina, per percorrere la strada lavica dell’andata e poi fuori pista su della bella sabbia bianca dove gli autisti si lanciano a correre nel deserto. Alle 17 ci fermiamo per una merenda con l’ultima busta di parmigiano portata dall’Italia e alle 18 giungiamo al villaggio di Ahmed Ela, alla fine del quale ci accampiamo. Siamo sulla strada principale intorno ad una capanna che funge da cucina; ci vengono portati dei lettini di vimini, che fungeranno da giaciglio per due notti. Intanto che scarichiamo i bagagli e ci sistemiamo nel campo vediamo passare sulla strada una interminabile fila di cammelli e di asini, una lunghissima carovana del sale! In realtà le carovane sono due, che vanno in direzione opposta; i cammelli e gli asini che arrivano dalla direzione del paese sono carichi di piccole lastre di sale, ben fasciato e protetto. In testa ed in mezzo alla carovana pastori afar che camminano con un lungo bastone messo orizzontale dietro la schiena e con le braccia sopra appoggiate. Comincia a far buio, e preparato il sacco a pelo per la notte, mi accorgo che subito dietro la capanna stanno sgozzando un capretto per la nostra cena di Capodanno, che con grande maestria viene appeso, eviscerato e preparato per la cottura. Siamo tutti di buon umore, l’ultima cena dell’anno in Dancalia è sicuramente qualcosa fuori dal consueto : il capretto in umido preparato da Michi è veramente una prelibatezza. Vino e dolci portati dall’Italia, il rum e qualche canto sotto le stelle. Alle 11 mi sdraio sul mio giaciglio à la belle étoile! Buon anno!

 

 

1 Gennaio, Ahmed Ela

Sveglia quando ancora è tutto buio, e partenza per la piana del sale; pochi kilometri in fuoristrada e mentre il sole albeggia fra le nuvole scorgiamo nella pianura sterminata la prima carovana del sale; è emozionante sotto i raggi del sole che filtrano dalle nubi osservare le sagome lontane sull’orizzonte di decine di cammelli in fila ordinata, legati l’uno con l’altro con una corda come fosse il filo di un ricamo. La piana del sale è una distesa di seicento chilometri quadrati, a 110 metri sotto il livello del mare, formatasi dall’evaporazione del Mar Rosso venti o trentamila anni fa che ha lasciato una crosta spessa di cloruro di potassio e di sodio. Sembra un infinito campo di hockey su ghiaccio, senza alcuna vegetazione o un minimo segno di antropizzazione, neanche un palo della luce! Il sale, che viene usato principalmente per il nutrimento degli animali da pascolo è da sempre l’oro di questa regione, e viene estratto qui per essere trasportato a dorso di animale nei ricchi e freschi mercati dell’altopiano etiope. Vediamo migliaia di uomini, afar e tigrini, al lavoro sotto il sole, secondo una divisione certosina dei compiti, che probabilmente è immutata da secoli. La crosta di sale viene dapprima fessurata con delle asce, dopo di che entrano in azione due o tre uomini che infilano dei lunghi bastoni nodosi nelle fessure, e con gran sforzo e tensione di muscoli riescono a distaccare e capovolgere pezzi di crosta compatta. Infine entrano in azione gli scalpellini, che con i piedi piantati in terra e il sedere chinato a sfiorare i talloni, intagliano con precisione certosina e minimo scarto, blocchi rettangolari del prezioso materiale che vengono impilati e legati accuratamente.  I cammelli ed i muli, che possono resistere nel deserto anche venti giorni senza acqua, sono pigramente in attesa di essere caricati per il loro lungo viaggio verso l’altopiano, pronti a disporsi ordinatamente in fila come delle mannequin sulla passerella. La crosta si spezza e si riduce in blocchi per chilometri, senza soluzione di continuità, tra migliaia di uomini che si muovono ordinati come delle formiche laboriose . Sento una sorta di pudore di fronte a queste condizioni lavorative ataviche e disumane, mentre Jonas e i nostri autisti distribuiscono gli occhiali da sole che su sua indicazione abbiamo portato dall’Italia: il riverbero della luce su questo biancore infinito finisce per rendere quasi ciechi gli intagliatori di sale. A mezzogiorno partiamo per le piramidi del sale, dette anche le colonne della Dancalia, dove viene organizzato il pranzo, anche se la maledizione di Montezuma comincia a colpire. Tafari, detto tough, ci dice che quando si mangia la carne di capra ci si deve depurare in quanto la capra mangia i serpenti. Facciamo un piccolo trekking nella zona, tra formazioni rocciose bizzarre, pinnacoli, colonne di pietra salina in una specie di canyon da Far West sotto l’occhio inquieto di militari in mimetica e kalashnikov, che ci seguono ovunque. Entriamo dentro una grotta piena di strane concrezioni dendritiche al centro della quale c’è una pozza d’acqua cristallina. Alle 16 partiamo verso l’ultima destinazione, il mitico Dallol, il luogo degli Spiriti, miraggio per ogni viaggiatore degno di questo nome. Parcheggiamo i fuoristrada ai piedi di una piccola collina, che scaliamo in pochi minuti. Attraversata una piccola pianura con delle formazioni rocciose a metà tra i funghi e dischi volanti,  ci si apre un incredibile spettacolo di zolfo, acqua, fumi, zampilli di vapore e laghi colorati. Da un punto di vista meramente geologico il Dallol è un’area di vulcanesimo residuo, dal mio punto di vista sembra una allucinazione di colori , forme ed odori. Esploriamo questo luogo di spiriti inquieti finché il tramonto ci costringe a tornare al nostro campo, dove è stata allestita una doccia da campo, ma il vento rende quasi impossibili il potersi lavare. La branda mi è già diventata familiare.

 

 

2 Gennaio, Macallè

Ci alziamo presto, prima del sorgere del sole, ma rimaniamo fermi al campo un bel po’, in attesa del permesso di muoverci. Da una capanna subito dietro le nostre brande arrivano due bambini; hanno la scabbia in testa ed i piedi pieni di pustole; Enrico medica le piaghe dei piccoli Afar, che presi dei biscotti, se ne vanno orgogliosi dei cerotti sui loro piedini.  Partiamo con i militari di scorta e raggiungiamo il lago giallo, una grossa piscina di acqua solfurea, dove si formano e gorgogliano bolle di colore giallo canarino intensissimo, che macchiano la superficie livida del lago. Alle 10,45 siamo di nuovo ai piedi della salita che porta alla piana del Dallol. Facciamo un lungo giro ancora più bello di quello del giorno precedente, in senso orario, ammirando come la natura riesca a sbizzarrirsi con le forme ed i colori. Il bianco ed il giallo sono i colori dominanti, ma non mancano il verde , il rosso ruggine ed il marrone, che formano una specie di retinatura degli specchi d’acqua. Mi colpisce soprattutto il giallo, un colore che non siamo abituati a vedere in natura, se non nei prati di girasoli toscani o di margherite di montagna. Ma qui ha il colore demoniaco dello zolfo, con il suo odore che sembra uscito dall’antro di Caronte. Preferisco l’azzurro del mare Mediterraneo o il verde dei boschi in primavera, ma questo paesaggio allucinato con le sue fumarole, mi ricorda le forze primordiali della natura, i vulcani che hanno creato la terra ed il magma sul quale galleggiano le zolle dei continenti. Qui comincia la grande spaccatura della Rift Valley, che fra qualche milione di anni, separerà questa regione dall’Africa, e qui la crosta terrestre è sottilissima solo 20 km.  All’una si riparte, con l’ultimo grande colpo di scena della Dancalia, che sa di addio più che di arrivederci: sotto il sole infuocato del meriggio appare all’orizzonte l’ultima carovana di cammelli, ordinati come in un ricamo, che marciano in fila interminabile sulla lastra bianca del sale. Ci avviciniamo il più possibile con i fuoristrada, per vedere il loro riflesso nelle pozze d’acqua, e fissare con gli scatti e con la memoria questa immagine fiabesca, da mille e una notte, destinata a scomparire con l’arrivo imminente della civiltà. Davanti al nostro accampamento fa mostra di sé un grosso Caterpillar cinese che sta preparando il massetto per la successiva asfaltatura. Una interminabile striscia di bitume nero violerà entro pochi anni  il bianco del mare di sale della Dancalia e una lunga fila di camion rumorosi avrà il sopravvento sui lenti cammelli. Ultimo pranzo al campo con riso e verdurine, ed alle 15 in punto ripartiamo. Ci inerpichiamo dopo poco sulle montagne che ci separano dall’altopiano, tra sterrati e gran lavori di costruzione di nuove strade. Pochi pastori, un villaggio con case di lamiera, Berhale, donne dai copricapi rossi e i soliti bambini che ti corrono incontro chiedendo elemosine. Quando ci fermiamo per un pipì-stop ci coglie di sorpresa il freddo; in realtà il termometro della macchina segna 22 °C, ma il contrasto con la canicola della Dancalia si fa sentire. Alle 19 siamo a Macallé, capitale della regione del Tigrai, e qui riprendiamo contatto con una vera città, negozi, insegne, cartelloni pubblicitari, elettricità, con un po’ di malinconia…. Ci sistemiamo all’hotel Hilltop, e la doccia calda tira via gli ultimi residui di depressione dancala!

 

 

3 Gennaio, Macallè

Partiamo dall’hotel alle 8,45, sotto un cielo azzurrissimo, immersi in uno splendido paesaggio africano, mentre sulla strada si alternano pastori scalzi e ciclisti in assetto professionistico. Dopo un’ora giungiamo al paese di Wukro, dalle case con le facciate dipinte con colori accesi, viola, celeste, verde acqua. Attraversiamo la strada fiancheggiata da alcuni edifici costruiti dagli italiani e poi giriamo a sinistra su una strada sterrata fiancheggiata da grandi pianti ombrose, sicomori, e ficus giganti. Mi viene in mente l’Aida, principessa etiope : “o cieli azzurri, o dolci aure native, o verdi colli, o profumate rive”.  Alle 10,30 giungiamo al monastero di Abraha Wa Atsbeha, una chiesa semimonolitica , scavata dentro una grande roccia in fondo ad un piccolo villaggetto di contadini e bambini che vendono delle pietre fossili. Saliamo fino all’ingresso, dove viene ad aprirci un sacerdote vestito di turchese, che si avvolge con un turbante ed una tonaca bianca: apre il lucchetto di una grossa porta in legno ed entriamo ad ammirare i pilastri intagliati nella roccia e gli affreschi che ricoprono tutta la chiesa. E poi ci sono gli arcangeli Michele e Gabriele a guardia delle porte del sancta sanctorum e c’è San Giorgio, il patrone dell’Etiopia, che uccide un drago azzurrino. Il sacerdote ci mostra un antico libro, scritto in lingua gheez, che è per l’amarico quello che il latino è per l’italiano, e poi accenna a percuotere i tamburi rituali di forma ovale posti all’ingresso. Lungo la strada del ritorno vediamo belle scene di vita agreste e le lunghe file davanti al mulino di donne con i loro sacchi di cereali. Sulla strada bambini con ordinate divise da scuola di colore turchese e blu cobalto. Ci stiamo dirigendo verso la sagoma frastagliata dei monti del Gheralta e ci fermiamo per visitare una bella casa tigrina, con un grande cortile sul quale si affacciano la stalla, il granaio, la cucina ed il salotto buono. Pranzo al lussuoso Gheralta lodge, costruito e gestito da una coppia italiana, ed arredato con un melting pot di design italiano e materiali africani. Ripartiamo ed alle 15 iniziamo la salita al monastero di Abuna Yemata con un guida locale di nome Aile. Dopo 45 minuti di salita non troppo ripida, bisogna lasciare le scarpe per arrampicarsi su una ripida parete di roccia; mentre scaliamo la montagna , Aile e due suoi aiutanti ci mostrano gli appoggi per le mani ed i piedi , facilitandoci la salita del dislivello di quasi 500 metri. Ma in cima ci aspetta un panorama impagabile su tutta la regione circostante e percorsi gli ultimi metri a strapiombo, entriamo con grande emozione nella chiesa scavata nella roccia, dove sostiamo qualche minuto prima che gli occhi si abituino al buio. Le cupole e gli affreschi sono magnifici, ci sono i dodici apostoli e c’è tutta la storia del fondatore, Abuna Yemata, uno dei nove santi siriani che hanno evangelizzato l’Etiopia . Gli affreschi a detta della guida risalgono al tredicesimo secolo, e sono in perfetto stato di conservazione. Ci vengono mostrate anche delle antichissime Bibbia, con bellissime miniature e caratteri neri e rossi. Mi viene quasi da piangere per l’emozione che mi dà questo posto sacro; la discesa è più agevole, e permette di ammirare lo spettacolo del tramonto sulla pianura con le montagne del Gheralta che si tingono di rosso. Alle 18,15 partiamo per tornare a Makallé, ma quando è ormai completamente buio, un camion con motrice insabbiato su una salita ci impedisce di proseguire. Anche i nostri autisti si prodigano per rimettere in movimento il bisonte della strada, ma le ruote girano a vuoto e la frizione comincia ad emanare gran puzza di bruciato. Dopo un’ora di vani tentativi, Jonas intravede una cunetta laterale, che riesce a  percorrere con il fuoristrada togliendoci dall’impiccio. Chissà quanto ancora durerà la fila!  Arriviamo stanchi all’Hilltop alle ore 22,30.

 

 

4 Gennaio, Woldia

Dopo una notte agitata mi sveglio con dolori allo stomaco e la febbre. Mi curo all’occidentale con Imodium e Tachipirina e all’etiope con la ricetta infallibile di Tafari – 2 cucchiaini di miele e 1 di polvere di caffè mischiati insieme. Siamo rimasti in 5, io, Anna, Roberta, Enrico e Claudio, con Tafari alla guida di un minivan. Partiamo in direzione Lalibela, in una giornata azzurrissima, di sabato che in Etiopia è il giorno del mercato, e la strada è affollata di uomini e donne che a piedi si recano con merci ed animali verso la città più vicina. Le donne hanno una bellissima pettinatura a treccine che a metà testa diventano capelli arruffati. Nonostante le mie precarie condizioni di salute non posso fare a meno di  ammirare i paesaggi africani mozzafiato, e quando ci fermiamo a fotografare il lago vulcanico di Ashenge, vediamo sbucare dal nulla più di venti bambini, laceri e malvestiti, che chiedono penne, birr, e sono tutti eccitati per la nostra visita inattesa. Dopo una sosta pranzo nel giardino di un ristorante che serve l’immancabile capretto arrosto in belle terrine di terracotta con la brace sotto, arriviamo alle 15 al mercato tigrino di Alamata, che andiamo a visitare. Grande mercato africano polveroso, con pile di plastiche cinesi, animali da pascolo, cereali, banane e tanta umanità. Questa volta siamo noi lo spettacolo, non riusciamo a toglierci di dosso torme di bambini che ripetono ad alta voce you, you, you e ci seguono ovunque. Mi muovo con difficoltà, ma il poter apprezzare questo luogo ancora così autentico, con i suoi personaggi colorati e bizzarri e stabilire  a volte un breve ma sincero contatto umano, è una di quelle cose che ti fanno dimenticare la fatica e la durezza dell’Africa. Ritorniamo lentamente all’auto, tra pile di berberé, sacchi di carbone e sguardi divertiti di curiosi. Ripartiamo alle 16,30 e dopo un’ora ci fermiamo in una specie di osteria, dove si produce, si serve e si consuma il tej, una bevanda alcolica a base di miele, che viene servita dentro a dei fiaschi arrotondati alla base. Anche qui grandi sorrisi, curiosità e richieste di foto. Un posto che sembra fuori del tempo. Ci fermiamo a dormire in un’anonima cittadina lungo la strada, Woldia, in un hotel un po’ fatiscente, come ci aveva preannunciato la Lonely, ma che ci serve a cena un’ottima pizza.

 

 

5 Gennaio, Lalibela

Ci alziamo con comodo e partiamo alle 9,30 per Lalibela. La strada sale verso il cielo tra paesaggi agresti e piantagioni di canne da zucchero. In poco tempo arriviamo ad una quota di 3.500 metri di altezza. C’è un gran numero di autobus di pellegrini in occasione del Natale. Il calendario etiope è di derivazione copta e non coincide con il nostro. Ha circa 7 anni di ritardo rispetto al gregoriano e il Natale, detto Genna, cade il 7 gennaio. Lungo la strada ci sono sacerdoti con ombrelli colorati, paramenti e croci copte, che invitano i pellegrini che passano in occasione delle festività a donare offerte alle chiese vicine. Anche Tafari ed io che sono un farangi, uno straniero, ci facciamo benedire e baciamo la croce. Alle 11,45 al paese di Gashena lasciamo la strada principale e giriamo a destra su una pista non asfaltata, insieme agli autobus dei pellegrini. Procediamo tranquillamente , ammirando il bel paesaggio, quando una sassata infrange un finestrino posteriore. Vediamo dei ragazzi sopra una collinetta che scappano, Tafari corre al loro inseguimento ma deve ritornare indietro a mani vuote. Con un po’ di agitazione ed il vetro rotto arriviamo poco prima delle 2 a Lalibela, piena di gente e di confusione, in mezzo ad una atmosfera di festa e di eccitazione. Lalibela, chiamata la Gerusalemme dell’Africa, è in realtà un piccolo paese polveroso di poche case e qualche negozietto. Passiamo accanto al Monte Tabor e al fiume Giordano e ci sistemiamo all’hotel Beta Abraham, dove pranziamo. Partiamo con una guida alla scoperta delle famose chiese scavate nella roccia nel dodicesimo secolo, ordinate in due gruppi distinti e separati dal canale Giordano. Attraversiamo una folla in preghiera e pellegrini stipati sotto un palco, dove ci sono alcuni sacerdoti che predicano, ed arriviamo presso Bieta Medhame Alem, la casa del Salvatore del mondo. Questa chiesa monolitica è la più grande del sito, con 76 pilastri esterni ed interni, ricavati dalla roccia tufacea, alcuni dei quali restaurati. Oltre alla guida abbiamo anche un guardiascarpe personale; ci mettiamo i calzini cinesi antizecche ed entriamo all’interno. La chiesa è emozionante, nella sua grandezza e allo stesso tempo semplicità, con i bellissimi pilastri, archi e capitelli scavati, illuminati solamente dalla luce naturale che entra dalle finestre, e migliaia di fedeli che si accalcano e ululano per la felicità. Il sentimento di religiosità traspare dalla folla, le donne pur nella loro povertà, sono avvolte nei loro manti bianchi, che creano un bel contrasto con il colore uniforme della pietra. Traspare ovunque  nella folla un gran sentimento di religiosità. Usciamo insieme alla scia dei pellegrini e sulla strada del ritorno visitiamo il mercato di Natale, non proprio un Weihnachtsmarkt tirolese…. Su una brulla collinetta si vendono sciarpe tradizionali, libri, croci e code di cavallo per scacciare le mosche. Nel frattempo che il sole tramonta dietro le montagne imbalsamate, ce ne ritorniamo in hotel per recarci poi a cena al Ben Abeba, un ristorante dalle forme avvenieristiche che ricordano un luna park.

 

 

6 Gennaio, Lalibela

La cameriera che ci prende le ordinazioni per la colazione è molto carina, ma come succede spesso qui, anche un po’ imbranata. Facciamo le ordinazioni singole, ma quando poi deve fare le somme e prova a fare il riepilogo va in tilt. Quando finalmente riesce a venirne a capo arriva la collega, alla quale ripete il tutto, e siamo di nuovo da capo. Comunque alle 8 siamo in partenza, e acquistiamo 5 paia di calze a testa, poiché nelle chiese è obbligatorio togliersi le scarpe, ed i tappetti sono infestati di zecche e di pulci. Prima tappa alla chiesa di San Giorgio, isolata dai due gruppi principali, e capolavoro assoluto di Lalibela. La vista che ci appare dall’alto è grandiosa, autentico monolite scolpito a forma di croce greca, tre piani sovrapposti senza necessità di pilastri portanti ed un sistema di canali di scolo che le hanno permesso di preservarsi intatta dopo quasi mille anni e quindi non dover subire lo stupro del cemento e dell’acciaio che l’Unesco ha imposto a tutte le altre chiese. E’ un delirio di pellegrini da tutto il paese e vi è una tale ressa che non proviamo neanche ad entrare all’interno; gli stretti canali di entrata ed uscita sono come un fiume in piena di manti bianchi inestricabili. Ammiriamo lo spettacolo dal bordo superiore e da ogni angolatura possibile e poi ci incamminiamo attraverso l’accampamento dei pellegrini, dove bivaccano, tra teloni e giacigli, migliaia di persone in attesa del Natale. Visitiamo una tipica casa di Lalibela, circolare come un trullo, a due piani, con quello inferiore destinato agli animali, che fungono anche da riscaldamento per quello superiore. Arriviamo ad un grosso monolite detto la tomba di Adamo, dove è scolpita una grande croce, ed un passaggio sottostante conduce alle chiese adiacenti del Golgota e del monte Sinai, detta anche Bieta Mikael, dall’arcangelo che aiutò Mosè aprendo le acque del Mar Rosso. Entriamo arrampicandoci sulla roccia ed ammiriamo la splendida struttura scavata nella roccia ed i bellissimi pilastri cruciformi. Nella chiesa del Golgota possono entrare solo gli uomini, per pregare ed ammirare le sculture a grandezza naturale dei 12 apostoli, di cui però solo 4 sono visibili, essendo gli altri protetti alla vista da un tendone che ci divide dalla parte più sacra, accessibile ai soli sacerdoti, dove è conservata la copia dell’arca dell’alleanza. All’uscita entriamo in un buio tunnel, scavato interamente nella roccia, lo percorriamo in fila con tutti i pellegrini, e quasi alla fine, come una Petra in miniatura, vediamo apparire la chiesa di Maria, Bieta Maryam. Piccolo edificio circondato da un portico, con bellissime finestre scolpite a forma di croci di vario genere e di svastiche. L’interno a tre navate, è decorato con sculture e pitture, ispirate alla vita della Madonna, come la natività e la fuga in Egitto. La Chiesa è forse la più popolare per i devoti, e ad un certo punto è talmente tanta la gente che è entrata, che non riusciamo più a muoverci e rimaniamo fermi per decine di minuti, schiacciati dal flusso di pellegrini e di farangi, fino a quando la nostra guida riesce ad aprirci una via di fuga tra la folla. Fuori dalla chiesa si sta svolgendo una cerimonia cantata, officiata da decine di sacerdoti che indossano turbanti bianchi e paramenti di vario colore a seconda del grado di importanza. Il canto monodico è bellissimo e antichissimo, ed è accompagnato dalle percussioni dei tamburi dipinti e dal tintinnare dei sistri, che tutti i celebranti muovono ritmicamente con le mani. Spettacolo suggestivo per gli occhi e per le orecchie mentre tutto intorno si svolgono le scene di vita più varie, con anche un battesimo officiato da un prete con il turibolo. Saliamo in alto sopra le rocce per ammirare le chiese, le cerimonie ed i pellegrini, e poi da bravi turisti andiamo a riposarci dalle fatiche nel bel ristorante Seven Olives, tra fiori tropicali, ottimo cibo e birre fresche. Un po’ di relax in hotel, allietato dalla visita del patriarca di Addis Abeba, la massima autorità religiosa del paese, un po’ come il papa, che fa l’ingresso trionfale nella hall, tra fiori e applausi. Riprendiamo la visita del secondo gruppo di chiese, la Gerusalemme celeste, che si rivelano un po’ meno interessanti, o forse sta solo venendo meno lo stupore. Dapprima le chiese affiancate di Gabriele e Raffaele, che una volta costituivano il palazzo reale di Lalibela, inespugnabile per la sua posizione a picco sulla roccia, poi Bieta Merkourios e Bieta Emmanuel, completamente monolitica, ed infine Bieta Abba Libanos, dedicata ad uno dei novi santi siriani, a differenza di tutte le altre ricavata dentro una roccia, e dall’interno microscopico. Visitata questa ultima chiesa lasciamo una mancia al nostro fidato guardiascarpe e ci concediamo un po’ di shopping nei negozietti, tra croci e oggettini vari. Dopo la cena all’hotel Lal, ci rechiamo a piedi alla chiesa del Salvatore per le cerimonie notturne della vigilia di Natale. Entriamo dall’ingresso principale e subito si offre il colpo d’occhio di migliaia di corpi distesi per terra, coperti di veli bianchi che sorreggono le fiammelle delle candele votive. Recarsi presso l’area davanti alla chiesa, dove si sta svolgendo la cerimonia, è un’impresa delirante. Tafari ci fa strada tra la folla che spinge e si accalca, aprendo un varco tra le persone in fila ed i corpi distesi dei dormienti. Riusciamo, dopo molti sforzi, a sistemarci precariamente su una roccia in alto a strapiombo, dalla quale si possono vedere i movimenti dei sacerdoti, al ritmo dei canti. La situazione è un po’ precaria, e complice anche la stanchezza e la scomodità non si riesce ad apprezzare in pieno la cerimonia. Intorno a mezzanotte decidiamo di ritornare indietro, e facciamo la strada al contrario tra migliaia di corpi distesi, venditori di candele e sacerdoti che pregano e porgono la croce per la benedizione. Visita in notturna a san Giorgio, suggestiva sotto le stelle e nel silenzio della notte africana.

 

 

7 Gennaio, Bahir Dar

 Anche questa mattina qualche problema a colazione con la cameriera, e nonostante i riti del giorno di Natale, alle 9,30 siamo in marcia. Oggi finisce ufficialmente anche il digiuno del mese di Natale e moltissimi pellegrini si sono rimessi in marcia per ritornare a piedi nei loro viaggi, anche a 40-50 km di distanza. Le strade sono affollatissime e ancora piene dell’atmosfera festiva. La tappa di oggi prevede 310 km fino a Bahir Dar sul lago Tana, e i primi 46 Km sono lo stesso sterrato dell’andata. Gli etiopi usano ancora molte parole derivate dall’italiano, ex paese colonizzatore, tipo caramella, birra, gomma, asfalto: lo sterrato viene chiamato pista. Fortunatamente questa volta tutto fila liscia sulla pista, nessuna sassata, ma solo un colorato funerale. A Gashena riprendiamo la strada principale in direzione Woreta, con la gente che non si sposta dalla strada ed i tanti che vorrebbero un passaggio, ma vedendo una macchina di farangi si ritirano sconsolati. Siamo a Natale, un giorno di festa e c’è molto fermento in giro e pochissimo traffico a parte qualche cisterna che trasporta benzina dal vicino Sudan. Ore 12,45 sosta caffè in un poverissimo villaggio sulla strada, solito tavolino lercio che ci viene pulito per l’occasione, nugoli di mosche e vespe che cerco inutilmente di scacciare tra le risa dei bambini che ci osservano da vicino. Per festeggiare il Natale copto ci mangiamo 2 torroni che Enrico a portato da Cremona, il tutto sotto gli sguardi meravigliati dei bambini poveri. Dopo un’ora di macchina giungiamo nella città universitaria di Debre Tabor, Debre in amarico vuol dire monte o monastero. Il ristorante è pieno di ragazzi locali che festeggiano il Natale. Ripartiamo alle 15,10 e dopo mezz’ora siamo al bivio che a destra indica Gondar, e a sinistra Bahir Dar a 61 km. Si comincia ad intravedere la distesa del lago Tana, il lago più grande dell’Etiopia, 8 volte il lago di Garda ed alle 16,30 attraversiamo il ponte sul Nilo Azzurro ed entriamo in città. Bahir Dar è il capoluogo della regione Amara ed è una città che appare ordinata e tradizionale, dopo tanti giorni tra capanne e strade polverose. La Lonely la chiama la Riviera Etiope. Ci sistemiamo in un bell’albergo, e usciamo subito a piedi dirigendosi verso il lago. La gente è molto più di città, ben vestita, ci sono tanti ragazzi e ragazze sorridenti. Giungiamo sul lago, in una atmosfera un po’ retrò anni 60; costeggiamo la sponda del lago, dove si affacciano dei bellissimi alberi secolari con tronchi e fronde enormi ed arriviamo in un bel posto in riva al lago dove c’è tutto prato inglese e alcuni chioschi che servono da bere e da mangiare. C’è una guardia armata che impedisce l’accesso ad una piccola penisola dove c’è una folta colonia di pellicani che si riposano al tramonto ed una selva di papiri. Anche noi ci concediamo un aperitivo, birra e patatine, per il primo happy hour in salsa etiope, in mezzo a coppiette di innamorati e bambini con i cappellini rossi da Babbo Natale. A cena andiamo in un locale vista lago, che sembra un grosso dancing anni 70, e ci servono un pesce al cartoccio, un po’ piccante, ma veramente buono. Si cominciano già a tirare le prime somme del viaggio.

 

 

8  Gennaio, Bahir Dar

Quando ancora non sono le 8 saliamo su un barchino stile Promessi Sposi, con un telo azzurro, e partiamo per la navigazione sul lago Tana. Siamo noi 5, Tafari e un ragazzo al timone che ci porta sul lago immenso, che si estende a perdita d’occhio come un mare che con la luce del mattino ispira serenità e calma.  Incrociamo una barca fatta di papiro, ed osserviamo le isole ricoperte di una fitta vegetazione. Il lago ospita 37 isole e 29 monasteri , fondati tra l’11 ed il 16 secolo. Dopo meno di un’ora sbarchiamo sulla penisola, dove ci aspetta una guida che deve portarci a visitare il monastero più famoso, quello di Uhra Kidane Mehret. Ci inoltriamo dentro una bella foresta, tra alberi enormi e piantagioni di caffè con i frutti rossi, piante di qum-quat e altre meraviglie botaniche. Ai lati ci sono molte bancarelle che vendono dei prodotti artigianali, in realtà di qualità molto modesta. Dopo un bel quarto d’ora di piacevole passeggiata giungiamo al monastero, che ha la tipica forma circolare con tre camere concentriche e tetto conico sormontato da 7 uova di struzzo a simboleggiare i giorni della settimana ed i sacramenti. Ci togliamo le scarpe ed entriamo ad ammirare gli affreschi all’interno, sulle pareti che proteggano la camera invalicabile con l’arca dell’alleanza. I dipinti risalgono al 16 secolo, ma nel 18 secolo furono aggiunti nella parte bassa della parete ulteriori affreschi a seguito del tentativo fallito dei portoghesi di imporre il cattolicesimo, testimoniato dai volti delle figure che da neri diventano bianchi. Sono affreschi molto belli, che raccontano le vite dei santi, miracoli e vangeli più o meno apocrifi, il martirio degli apostoli, il tutto in un tripudio di colori e di simboli, volti e vesti tipicamente africani. Molto interessante è la parete con dipinti i miracoli di Maria, madre di Dio e della Chiesa, particolarmente onorata dagli etiopi che le attribuiscono più di 300 miracoli. Mi colpisce molto la storia affrescata del cannibale, che dopo aver divorato la moglie, amici e parenti, un giorno offre un bicchiere d’acqua ad un mendicante che chiedeva aiuto in nome di Maria. Quando muore ed i diavoli lo stanno precipitando all’inferno, intercede la Madonna, ed un angelo mette sui piatti della bilancia da un lato i corpi delle persone da lui divorate e sull’altro il bicchiere d’acqua, che fa pendere a suo favore la bilancia, salvando così  il cannibale dalla dannazione. “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”, per usare le parole del nostro amato Manzoni. Anche qui le porte che conducono all’interno sono affrescate con enormi figure degli Arcangeli Michele e Gabriele. Visitiamo anche un piccolo museo annesso con libri dipinti molto antichi, copricapi di sacerdoti, e paramenti sacri. Scendiamo con calma verso la barca, contrattando e facendo piccoli acquisti. Prossima tappa, forse per un malinteso, andiamo a finire su un isolotto dove c’è un monastero femminile, Entos Eyesu Monastery, dove a parte un paio di suorine che si fanno fotografare non c’è praticamente nulla di interessante. Tafari dice che abbiamo acquistato un biglietto che ci consente solamente due ingressi e pertanto ci portano a vedere il punto del lago da cui nasce il Nilo azzurro, di cui percorriamo con il barchino il primo tratto, senza vedere però l’ombra degli ippopotami promessi ma solo un misero airone. Rientriamo a terra, ed alle 3 siamo in macchina per andare a visitare le cascate del Nilo azzurro. Facciamo più di un’ora di sterrato, e arriviamo ad parco, dove assoldata l’ennesima guida, entriamo. All’andata facciamo il giro breve, e utilizziamo un barchino per recarci sulla sponda opposta del fiume, dove ci incamminiamo in un superbo paesaggio africano, tra alberi enormi e piantagioni di canna da zucchero e di qat. Le cascate sono molto belle, immerse al tramonto in un paesaggio selvaggio, anche se siamo nella stagione secca e considerato che una diga per una centrale idroelettrica ne ha ridotto notevolmente la portata. Ammiriamo lo spettacolo da tutte le angolazioni possibili, avvicinandoci quasi fino a sotto, dove si sentono già gli schizzi di acqua. Ritorniamo per la via lunga, e superato un lungo ponte sospeso, ci incamminiamo per una bella passeggiata di più di un’ora, attraversando villaggi e un antico ponte in pietra. Ritornati sulla strada principale, ci fermiamo presso una casa, dove una donna sta preparando sul fuoco l’injera, il tipico pane spugnoso etiope e dopo le foto di rito ce ne torniamo in hotel. Ottima cena al nostro ormai ristorante di fiducia, il Lake Shore.

 

 

9  Gennaio, Addis Abeba

Alle 7 partiamo per l’aeroporto, dove salutiamo Tafari che rientra ad Addis con la macchina, percorrendo 530 km. L’aeroporto di Bahir Dar è ancora in costruzione, e a parte il banco del check-in sembra un cantiere, ma il volo dell’Ethiopian Airlines parte con perfetta puntualità alle 9 e dopo un’ora di navigazione tranquilla atterra nella capitale. Lasciate le valigie all’hotel Ambassador, usciamo per un giro della città, the vibrant city of Africa, secondo alcuni cartelloni pubblicitari, in realtà un’anonima metropoli del terzo mondo, dove vivono più di tre milioni di persone, priva di grosse attrattive, se non fosse per le jacarande in fiore, e dove in mezzo al disordine, i cinesi stanno costruendo strade e ferrovie. Attraversiamo la città e saliamo con un auto in cima ad una collina, dove sorgeva il palazzo dell’imperatore Menelik che alla fine dell’ottocento fondò la città, su consiglio della moglie, l’imperatrice Titu.  Visitiamo un piccolo museo, la chiesa circolare Entoto Maryem e quello che resta del palazzo reale, uno dei più scalcinati palazzi reali che abbia mai visto. E pensare che però sono quelli che ci inflissero la sconfitta umiliante di Adua…. A pranzo andiamo in un bel ristorante, dall’atmosfera lounge e le poltroncine di pelle nera e subito dopo visita al museo etnografico, questo davvero molto interessante, situato in un bellissimo palazzo, dapprima sede per il governatore italiano e poi palazzo del negus Hailé Selassié, di cui sono state conservate le camere da letto ed i bagni. Al primo piano l’esposizione è dedicata alle tante etnie che popolano l’Etiopia e alle loro usanze dalla nascita alla morte. Al piano superiore una bellissima collezione di arte religiosa, con croci, oggetti sacri, icone, e una sala dedicata agli strumenti musicali. Il museo si trova nel rigoglioso giardino dell’università, pieno di fiori e piante: davanti al museo c’è un orribile monumento in cemento armato, che ricorda la fine di Mussolini, una scala a chiocciola con un gradino per ogni anno di regime a partire dal 1922. Andiamo a spendere gli ultimi birr nei negozietti di souvenir del grande mercato, e poi riposo in hotel prima del lungo volo notturno.

 

 

L’ultimo sogno dancalo, in aereo

 Mi sono addormentato sul volo da Addis Abeba al Cairo, e ho sognato una carovana del sale con migliaia di cammelli , che procedevano lentamente in fila ordinata con il loro carico prezioso, sotto lo sguardo attento dei pastori afar, e che dopo aver attraversato la collina del Dallol e reso omaggio ai suoi spiriti, giungevano in tempo a Lalibela e sostavano a san Giorgio per la benedizione di Natale; poi attraverso le strade dell’altopiano, dopo essersi dissetati nelle acque del Lago Tana, passavano in mezzo a file di cinesini chini ad asfaltare le nuove autostrade ed in ultimo giungevano ad Addis Abeba, in mezzo al traffico ed ai grattacieli in costruzione.  Qui finalmente, potevano riposarsi dalla fatica del viaggio , e di fronte a migliaia di curiosi raccontare la loro storia per poi riprendere la strada di casa carichi non solo di merci preziose ma soprattutto delle  esperienze  fatte e del  mondo scoperto, perché in fondo il viaggio non finisce mai e ricomincia non appena  si raggiunge una nuova meta.